Ricordo quando ho visto per la prima volta Stardust Memories, film del 1980 con un Woody Allen nella parte di Woody Allen e una Charlotte Rampling più nevrotica e affascinante che mai. In quel momento ho pensato che a una così invecchiare avrebbe dato parecchio fastidio: come si può accettare che un così bel faccino venga solcato dalle rughe?
Ebbene, ultimamente mi sono dovuta ricredere: trentacinque anni dopo, la Rampling è quella che Ruffini definirebbe con la sua proverbiale raffinatezza “una topa meravigliosa”. E pure bravissima.
45 Years è un film dell’inglese Andrew Haigh, così come inglesissima è l’ambientazione: cittadina piovosa, tutti conoscono tutti, ed è consuetudine che le coppie agée del paese organizzino ricevimenti per festeggiare il loro anniversario di matrimonio, quarantacinque anni per l’appunto.
E tuttavia, in questi quarantacinque anni Charlotte Rampling alias Kate Mercer forse si è illusa: il dubbio la attanaglia quando il marito Geoff riceve una lettera che lo informa del ritrovamento del corpo della precedente compagna, conservato per mezzo secolo nei ghiacciai delle Alpi svizzere. I due, in fuga dalla Germania nazista, si erano promessi eterno amore, ma un incidente mortale si era messo in mezzo. Nonostante le rassicurazioni di Geoff, Kate inizia a chiedersi se quei quarantacinque anni non siano stato altro che smoke in the eyes.
Vedendo questo film viene spontaneo ringraziare santi, divinità e idoli vari che Charlotte Rampling non abbia ceduto alle lusinghe del botox: a settant’anni appena compiuti, il suo sguardo è limpido e brillante, e le palpebre pesanti se possibile lo rendono ancora più intenso. Dire che ruba la scena a Tom Courtenay è un eufemismo: praticamente, c’è solo lei. Di fronte a un marito in piena crisi di mezza età, goffo e insipido, Charlotte – Kate svetta per bellezza e profondità. Tre le scene per cui la Rampling si merita l’Oscar: subito dopo aver saputo della lettera, quando, dopo una serata in cui Geoff ha tentato senza successo di farla divertire, giace sul fianco con lo sguardo perso nel vuoto; al ritrovamento di alcune fotografie, quando scopre che la precedente compagna aspettava un figlio; e soprattutto la scena finale, dove si ritrova a ballare un lento (con un vestito, aggiungo, che a me starebbe infinitamente peggio, e io di anni ne ho venticinque) e a scoprirsi stizzita e disillusa.
Avrete intuito che non è un film d’azione; epperò gli occhi blu della Rampling da soli bucano più delle pallottole.
La corsa per migliore attrice quest’anno si annuncia agguerrita: tra le avversarie principali ci sono un’elegante Cate Blanchett e una grintosissima Jennifer Lawrence, solo per citarne un paio. Ma tra la carriera (La caduta degli dei e Il portiere di notte come esordi, non so se rendo l’idea) e quest’ultima prova, Charlotte Rampling se lo merita proprio. Se a questo aggiungiamo che in nessuna delle tre scene di cui sopra ha bisogno di parlare per trasmetterci il dramma che sta attraversando, per l’Academy dovrebbe essere facile prendere una decisione.