Per tutti i fan della serie: avevamo chiuso la terza stagione lasciando Pipes, su di giri come non mai, a tatuarsi un 8 rovesciato da qualche parte nei dintorni dell’ascella e a sghignazzare per la vittoria nei confronti dell’amante/rivale di turno. Per tutti coloro che invece non hanno la minima idea di cosa si stia parlando: Orange Is The New Black, ideata da Jenji Kohan e ispirata all’omonimo romanzo di Piper Kerman, è una delle più riuscite creature della Netflix, in onda dal 2013 e fresca di quarta stagione – anche se recentemente è stata rinnovata fino alla settima – e narra le vicende di Piper Chapman, una ragazza sulla trentina che si ritrova quasi inconsapevolmente a dover trascorrere un annetto in prigione. Sì, perché l’insospettabile Pipes, impersonata da Taylor Schilling, che all’inizio della serie è una biondissima e bravissima ragazza del Connecticut, prossima a sposarsi con l’altrettanto rispettabile ed insipido fidanzato Larry (Jason Biggs), dieci anni prima ha partecipato nientemeno che a un traffico di droga internazionale. Nello specifico, aveva trasportato del denaro sporco per Alex Vause (Laura Prepon), corriere della droga per un grossissimo pezzo grosso e amante di Piper. A scanso di equivoci in cui l’italico idioma potrebbe facilmente far incorrere, Alex è una lei: dopo questa breve e intensissima parentesi lesbo, Pipes aveva deciso di tornare sulla retta via e di non turbare gli animi della sua borghese famiglia – per quello basta già il fratello new age, un ottimo Michael Chernus -, ma non tutto va per il verso giusto. Sì, perché Alex sperando in uno sconto di pena fa il suo nome durante il processo; le due si ritrovano così compagne di cella. Inutile dire che dopo una comprensibile freddezza ci sarà, come dire, un riavvicinamento.
Se la prima stagione era stata scoppiettante, un po’ per l’effetto sorpresa e un po’ per la qualità della trama e il livello della recitazione, la seconda e soprattutto la terza erano parse abbastanza dimenticabili. A nulla era valsa la comparsata dell’incantevole galeotta Ruby Rose negli ultimi episodi; da innovazione, OITNB si stava trasformando in una commedia romantica buona per la prima serata di Rai Uno ad agosto.
Ebbene, tutto cambia con l’ultima stagione: tredici puntate di tensione crescente, in un carcere, quello di Litchfield, sovrappopolato e pronto a scoppiare, in tutti i sensi.
Chi pensa che Orange Is The New Black sia un’opera che ha finalmente sdoganato l’amore gay è quantomeno superficiale: non esiste storia in cui la sponda gay o omo potrebbe contare di meno – eccezion fatta per qualche scenetta, piccante ma nemmeno così tanto, girata apposta per fare audience.
OITNB, e in particolare la quarta stagione, va ben oltre, e ci racconta le paure e i disagi di un’America che stenta a riprendersi dalla crisi, prossima a delle elezioni che potrebbero essere vinte da un miliardario guerrafondaio e fuori di testa, e dove a volte il carcere sembra quasi meglio della realtà.
Piper da santarellina è diventata una piccola gangster, ma dietro alla sicurezza si nasconde la più totale incapacità di gestire una situazione più grande di lei. Non sapendo come uscirne pulita, finisce per riversare la colpa su Maria (Jessica Pimentel); solo che Maria è una temibile domenicana, figlia di un boss della droga e decisamente più avvezza di Piper alle vendette di prigione.
Ecco quindi che da un tafferuglio a Litchfield si creano delle vere e proprie gang di matrice razziale: latine contro nere, nere contro bianche – una minoranza diventata parecchio aggressiva a causa dell’avvento di alcune naziskin nel club -, bianche contro latine. L’atmosfera è tesa e pronta a esplodere al minimo gesto.
A questo si aggiunge la nuova gestione della prigione: uno staff di manager tanto patinati quanto cinici, e soprattutto incapaci. Il povero Caputo (Nick Sandow), da poco direttore e deciso a rendere la prigione un posto migliore, si troverà a dover combattere con l’azienda proprietaria di Litchfield e con la fascinosa e cattivissima responsabile dell’ufficio acquisti Linda (Beth Dover), da un lato, e con le detenute sempre più arrabbiate, dall’altro. A coronare il tutto, il nuovo staff carcerario: la vecchia guardia è stata licenziata o ha deciso di abbandonare a causa delle condizioni sempre più indegne – finalmente qualcuno che parla di diritti sociali -, e Caputo è costretto a reclutare novellini esaltati o reduci dall’Afghanistan, mine vaganti diverse ma ugualmente letali. Su tutti spicca il nuovo comandante Piscatella (Brad William Henke), gay e precedentemente allontanato da una prigione maschile per motivi non espressi ma intuibili, e convinto di essere a Guantanamo anziché in un carcere di minima sicurezza.
Questo è uno dei tanti problemi messi in risalto da Orange Is The New Black: il rispetto, o meglio, il mancato rispetto, dei carcerati. Flaca (Jackie Cruz) viene sottoposta dai secondini a pratiche che ricordano in modo preoccupante le scene di Abu Ghraib che tanto hanno imbarazzato gli Stati Uniti; all’anziana Red (Kate Mulgrew) viene impedito di dormire; Maritza (Diane Guerrero) è costretta da una guardia lievemente psicopatica (un Michael Torpey che quasi ricorda l’Anthony Perkins di Psyco) a mangiare topi vivi; la stessa guardia inciterà poi una rissa fra detenute. Al confronto, il vecchio Pornobaffo (Pablo Schreiber), l’accidioso Luschek (Matt Peters) o perfino Coates (James McMenamin), invischiato in una relazione morbosa con la fragile Pennsatucky (Taryn Manning) ed insicuro al punto di arrivare a stuprarla, sembrano preferibili.
Non c’è più posto per Sam Healey (Michael J. Harney), secondino dalla doppia faccia ma animato da buoni sentimenti, o per Baxter Bayley (Alan Aisenberg), guardia imberbe mossa dalle migliori intenzioni, ma capace solo di causare disastri sempre maggiori. Fino alle battute finali, quando compirà involontariamente qualcosa di irreparabile e le cui conseguenze sono solo immaginabili.
Perché se in un esperimento sociale chi comanda se ne approfitta, prima o poi i deboli insorgono, a prescindere dalle loro piccole faide. Faide che tuttavia, una volta sconfitto il nemico più grande, in un tale clima di precarietà ed insicurezza sono destinate a tornare, più violente che mai.
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