
Shame: una tragedia contemporanea
Un intenso one-man-show sulla solitudine moderna di chi ha tutto ma non ha niente
Lo premetto e lo ammetto: ho iniziato a vedere questo film perché una mia amica mi aveva riferito che c’era Fassbender nudo. Ma nudo che più nudo non si può. Mi scuserete cari amici: sono una persona semplice, spesso volgare, schiava dei propri ormoni. Me tapina, me misera. A mia discolpa però posso dire che, senza il physique du rôle del buon Fassbender (un gran physique, bisogna dirlo), questo film non avrebbe avuto l’impatto giusto. E’ proprio da qui che vorrei partire nel parlarvene: si sa che si parla di sexual addiction e che c’è Michael Fassbender sempre ignudo. Quindi in tutta onestà non ero preparata alle palate d’angoscia che mi hanno travolto dall’inizio alla fine. Angoscia cruda, scarna, dura, senza un barlume di gioia (…se non quella degli occhi. Eheh.). Questo film mi ha pugnalato e mi ha fatto vedere il sesso sotto una luce che non avevo mai considerato, una luce tetra e cattiva che spero di non vedere mai. Tre anni dopo il meraviglioso esordio con Hunger nel 2008, il talentuoso Steve McQueen è al suo secondo lungometraggio: c’è di nuovo Michael Fassbender a svolgere il ruolo di protagonista, ma sia la storia che i temi sono lontani anni luce dai tumulti dell’Irlanda del nord narrati in Hunger. Shame è un dramma che sembra intimo ma non lo è, che svuota l’eros di passione per lasciare una scorza inanimata. E’ un film si silenzi immensi e terribili, di sguardi persi e malinconici.
Un perfetto newyorkese
Brandon Sullivan (Fassbender) è un uomo affascinante, con un ottimo lavoro e un bell’appartamento. Solissimo in una New York indifferente, il nostro eroe ha il pallino del sesso. E chi non ce l’ha, direte voi: solo che Brandon, quando non lavora, o si masturba o salta da una prostituta all’altra. Se esce con gli amici a bere, l’obiettivo della serata è comunque quello di portare a casa una donna per poi non rivederla più. Poco originale, vero, e quale città migliore di New York per avere tutto il sesso che si vuole quando si vuole. Ma la cosa sfugge di mano, si arricchisce di particolari grotteschi, sempre più disperati: gli amplessi di Brandon non solo sono privi di amore e passione, ma sono privi di voglia, di gusto. Brandon dipende completamente dai suoi impulsi sessuali, cosa che lo porta a chiudersi in una riservatezza maniacale. A complicare le cose spunta la sorella Sissy (Carey Mulligan), cantante squattrinata, buffa ed energica, piena di problemi e tremendamente bisognosa dell’affetto del fratello. La struggente versione di “New York, New York”, così antitetica rispetto a quella gioviale di Liza Minelli del ’77, cantata quasi sottovoce da Sissy in un locale, strappa una lacrima sincera a Brandon.
E’ in quella lacrima, forse, l’unica traccia di umanità del protagonista, che nonostante sappia quanto Sissy rappresenti l’unico affetto della sua vita la evita, la scaccia, la maltratta. Sissy sta male, Brandon sta malissimo, sempre di più e sempre più pericolosamente. “Non siamo cattive persone: veniamo solo da un brutto posto” dice Sissy. Di questo passato nero e cattivo non ci è dato sapere, come non ci è dato intuire il futuro di Brandon, visto il finale aperto. Possiamo solo goderci il presente di New York, veloce ed infernale.
Tutta la freddezza del grigio
La valanga di angoscia che attanaglia lo spettatore dall’inizio alla fine è in primo luogo merito della fotografia, sapientemente gestita da Sean Bobbit. La freddezza si percepisce da ogni inquadratura e ambiente, a partire dall’appartamento di Brandon, ben arredato e curato, ma più asettico di una sala d’aspetto. I personaggi sono omini dalla pelle grigia, al più giallognola se illuminata dalle luci artificiali. New York è cupa, ostile, noncurante, brutta. Macerie di un’umanità alla deriva.
La schiavitù del corpo
E poi la dimensione del sesso, per cui vale la pena spendere due parole in più. Prima ho detto che Hunger e Shame sono lontani anni luce. Ebbene, come spesso mi accade, avevo torto! Eppure è talmente semplice, chissà perché non c’ho pensato prima: c’è un fil rouge palese e bellissimo che lega le due pellicole e va ricercato nella dimensione del corpo. In Hunger, il ribelle Bobby Sands con lo sciopero della fame usa il suo corpo per affermarsi e liberare mente e spirito: il corpo è un accessorio scomodo, un nonnulla se paragonato alle idee e alla forza dell’anima. In Shame abbiamo l’aspetto speculare: il corpo è tutto, Brandon è il suo corpo. Gli uomini sono ridotti a scatola senza idee e senza anima, schiavi imprigionati dalle catene del consumo, del benessere, del tutto e subito. Sono (siamo?) più numerosi di quanto si creda.