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Il cinema all’aperto: ode semiseria ad afa, zanzare e celluloide

Devo ammettere che da adolescente ero una fan sfegatata di Ligabue – non il pittore, ma quello che cantava di notti fra cocci e zanzare et similia. Cosa c’entra con il Cinema?, vi starete chiedendo: ebbene, nel mio personale stream of consciousness io lego a doppio filo le due cose. Con il cinema all’aperto, per la precisione, tradizione che come ogni anno in questo periodo ritrova nuovo slancio, e di cui ora mi appresto a disquisire.

Avete presente Marlon Brando è sempre lui? Beh, dopo un numero considerevole di accordi tutti uguali il buon Luciano se ne esce con “giù in platea sedie di legno / e gole secche per la sete di eroi”: ecco a voi, in meno di mezza riga, una definizione esaustiva della fenomenologia del cinema all’aperto. I primi ad inventarselo sono stati gli americani, e non poteva essere altrimenti, con i drive-in; dopodiché siamo arrivati noi, abbiamo preso l’idea e l’abbiamo migliorata, o quantomeno l’abbiamo avvolta in un’aura poetica e velata di nostalgia che fa tanto Bel Paese. Sì, perché da nord a sud questa meraviglia effimera, che fra tre mesi verrà riposta in cantina in vista del prossimo anno, presenta delle caratteristiche pressoché identiche.

Primo: le zanzare. Sebbene il cinema all’aperto abbia preso piede soprattutto in Lombardia ed Emilia Romagna (a tal proposito, grande invidia per i bolognesi e per la loro Piazza Maggiore in cui ogni sera da qui a settembre verrà proiettato un’uscita recente o un grande classico gratis), è scientificamente provato che quelle simpatiche bestioline il cui unico scopo nella vita è far incazzare il prossimo abbiano preso la residenza estiva in ogni piazza, arena, cortile in cui ci sia una parvenza di schermo, anche in riva al mare o in cima al Monte Bianco. Con l’effetto collaterale di un piacevole aroma di Autan-killer-anche-per-le-locuste che vi accompagnerà lungo tutta la serata. Ah, se per caso vi dimenticate di cospargervi del suddetto Autan prima della proiezione siete spacciati.

Secondo: la scomodità. Sedie di legno, dicevamo; sì, quando va bene. Nella mia carriera di cinefila accanita ho visto film su panche di una chiesa, cumuli di mattoni, prati cosparsi di rugiada tanto scenografica quanto poco pratica, edifici industriali in disuso, sgabelli di plastica in stile festa all’oratorio. Quando non direttamente in piedi, ovviamente, e sprofondando progressivamente nel fango/sabbia/ghiaia/asfalto sciolto per l’afa – giuro che è successo anche questo.

Terzo: le gole secche di cui sopra. I baracchini intorno a un cinema all’aperto vendono di tutto: panini con la porchetta, Cremini abbandonati in freezer dagli Anni Ottanta, bibite coloratissime e zuccherosissime. Per avere una bottiglia d’acqua o una birra bisogna dire la parola d’ordine, recitare a memoria il quinto canto dell’Inferno dantesco, fare un triplo salto carpiato e accendere un cero al patrono della città.

Quarto: la luce. Fateci caso: sui volantini dei cinema all’aperto viene indicato un orario sempre indicativo, le 21.45 per esempio. Inutile dire che a fine giugno a quell’ora bisogna mettere la protezione 50 per uscire di casa. Le 21.45 diventano le 22.00, poi le 22.15, infine le 22.30: guardare un film diventa più impegnativo di andare a un rave.

Quinto: il maltempo. Nemesi della condizione precedente ed altrettanto e più fastidiosa, si concretizza nell’apocalisse di grandine e fulmini che si scatena puntuale dopo venti minuti dall’inizio. La probabilità di incappare in questo sbarazzino fenomeno della natura si impenna se siete usciti in bici, con le infradito e senza mezzo maglione (l’ombrello nemmeno lo consideriamo).

Sesto: il caldo. Altro simpatico effetto speciale di madre natura, ideale soprattutto quando si è in vena di film indipendenti iraniani o simili, per immergersi a fondo nella storia.

Settimo: le teste. Mentre in un cinema standard le poltrone digradano verso l’esterno, in un cinema all’aperto è tutto rigorosamente in piano, i nanetti soffrono e gli spettatori più alti ed incolpevoli si beccano pure gli insulti, alla faccia dell’equità e dell’arte che unisce.

Ottavo: il rumore bianco. Che tanto bianco poi non è, considerando che mediamente durante la proiezione di un film all’aperto passano dieci ambulanze, sei camion della spazzatura e un paio di volanti.

Nono: i bambini. Nessuno se lo spiega, ma il tasso di pargoli irrequieti in un cinema all’aperto è almeno doppio rispetto ai frequentatori di una sala tradizionale. Si ipotizza che i genitori, già provati dalla calura ed abbracciati al frigorifero, li caccino di casa onde evitare di finire sulle prime pagine della cronaca nera.

Last but not least: lui, il temuto, detestato, immancabile cineforum. “No, il dibattito no!” esclamava Nanni Moretti fuggendo a gambe levate in Io sono un autarchico; evidentemente, il gestore medio di un cinema all’aperto non ha mai visto quel film.

Ma allora perché ci vai? Domanda logica e più che lecita: per tutti i motivi di cui sopra. Perché i cinema all’aperto fanno subito estate, giovinezza, provincia sonnacchiosa anche quando prendono vita nel quartiere più cool della metropoli; quella cosa di cui ci lamentiamo, ma di cui in fondo non potremmo fare a meno.

Buona visione, e buona estate. Ah, e non dimenticatevi l’Autan.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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