
Sharknado: solo per trashofili accaniti
Immaginate una sera d’estate in cui rientrate distrutti dal lavoro, le ferie d’agosto sono ancora remote e, dulcis in fundo, la vostra connessione Internet ha deciso di suicidarsi, privandovi delle vostre preziosissime serie tv. Non resta che spiaggiarsi sul divano e sperare nel palinsesto: che nel resto dell’anno è pietoso, ma nei tre mesi di caldazza diventa un’aberrazione. Fate scorrere i canali mentre un malessere crescente vi attanaglia, quand’ecco che su uno di quelli a tre cifre vi imbattete nella soluzione ai vostri problemi: signore e signori, ecco a voi Sharknado.
Questo capolavoro di calamità naturali e pescioni volanti vede la luce nel 2013, la critica lo stronca, il pubblico pure, ma poi succede uno di quei miracoli inspiegabili dalla scienza: Sharknado diventa un cult, pur non avendo nulla di speciale. O meglio, tutto, ma non nel senso classico del termine. Alla regia c’è il signor nessuno Anthony C. Ferrante, che evidentemente all’epoca aveva un mutuo incombente; i protagonisti sono Ian Zering, il cui cursus honorum lo vede passare da bagnino di Beverly Hills a sterminatore di squali a Los Angeles – un sacco di strada sia metaforicamente che fisicamente, insomma; l’immancabile Tara Reid, biondona divorziata, viziata e complessata; e Cassie Scerbo nel sempiterno ruolo della gnocca dal passato tormentato e dal cuore d’oro.
Sin dalle prime battute, Sharknado mette a proprio agio lo spettatore, facendo schiattare nell’arco di pochi minuti un messicano e un generico asiatico, del tutto irrilevanti ai fini della consistentissima trama, e un’altra generica asiatica, bella ma evidentemente non abbastanza da meritare ulteriori inquadrature. Tutti ma non i perfetti bianchi americani, impegnati a scorrazzare sulla spiaggia invasa dagli squali – che per inciso, stanno invadendo la città a causa di una specie di tempesta tropicale al largo del Messico. Piero Angela, salvaci tu.
Ma non temete, siamo solo all’inizio: Sharknado riesce ad inanellare in meno di un’ora e mezza tutti gli stereotipi del blockbuster catastrofico. Però peggiorandoli. Esempio: nel bar gestito dall’ex bagnino innaturalmente biondo lavora la bellona di cui sopra, neanche troppo segretamente innamorata di lui, e abilissima nel maneggiare fucili ed armi di vario tipo come se ci fosse nata. Però la sua vocazione è, udite udite, fare la cameriera e servire alcolizzati lascivi ma in fondo tenerissimi: al punto da sacrificare la propria vita pur di salvare un cagnolino. Stereotipi, dicevamo?
E non finisce qui: il belloccio è una specie di Rambo, mollato dalla moglie e dai figli perché troppo impegnato a fare del bene agli altri (???), ma che naturalmente durante il film avrà modo di riconquistarli. Condite il tutto con scuolabus zeppi di bambini da salvare, ville sulle colline che inspiegabilmente esplodono, lettere di Hollywood che prendono il volo, macchine che prendono fuoco perché quello è un effetto che non si nega a nessuno e autostrade inondate di acqua e sangue, e avrete Sharknado.
A questo punto, i più studiati si staranno chiedendo il senso del titolo: nessun intento nichilista o surrealista da parte degli autori, quella parola è proprio la fusione di “squalo” e “tornado”. Però dovrete resistere per almeno un’oretta prima di approdare finalmente alla scena clou, quella che ha battezzato il film: tre trombe d’aria che si abbattono su Los Angeles spargendo nell’aria una pioggia di squali incazzati come fossero coriandoli. E che verranno distrutti dalla barista e dal figlio di Rambo, ché nel frattempo tra i due è scoppiato l’amore in barba a ogni logica – e del resto siamo in America, papà deve rimettersi con mammà. Come? Ma con delle bombe fabbricate a mano, che domande. Piero Angela, ma dove c***o sei?
Nel frattempo, squali che esplodono come wurstel, gente squartata del tutto casualmente, bisticci familiari, e la scena finale, capolavoro assoluto: dove una ragazza viene ingoiata AL VOLO da uno squalo ad alta quota, un uomo armato di motosega diventa l’antipasto dello stesso super-pesce ma non si dà per vinto e riemerge dalla carcassa della simpatica bestiola, ovviamente in compagnia della squinzia, ovviamente entrambi vivi e vegeti. Vedere per credere.
Effetti speciali degni di Paint, dialoghi che se non fossero così ridicoli potrebbero sembrare un copione da teatro dell’assurdo, lentezza narrativa degna della peggior soap opera, fotogrammi rubati direttamente da Discovery Channel: in effetti, a ripensarci Sharknado ha tutti gli ingredienti per diventare un cult del trash, tanto da meritarsi un numero indefinito di sequel sempre più inconsistenti e sempre più inguardabili. Decisamente meno ironico di Killer Klowns From Outer Space, quello sì una perla del genere so bad, so good, e decisamente più brutto; che volete farci, non ci sono più i blockbuster di una volta.
Ed ora scusate, ma vi devo lasciare che è arrivato il tecnico dell’Internet, sempre sia lodato.