
The Disaster Artist, c’è qualcosa di più dietro il trash
Se siete arrivati a leggere questo articolo lo avete fatto probabilmente grazie ai potenti mezzi social del MacGuffin, è quindi facile supporre che siate a conoscenza dalla continua, inestinguibile montagna di materiale trash rigurgitata dall’Internet. Fenomeno globale legato a personaggi improbabili sui quali nascono e proliferano tormentoni che al loro confronto Despacito è conosciuto come quella cover dei Linkin Park su YouTube di un dodicenne che a mala pena sa tenere una chitarra in mano. Tradizione ben radicata anche nella nostra cara Italia, ben prima in realtà dell’avvento dei social, quando internet era appena una suggestione, e dalle antenne di Cologno Monzese venivano emesse le prime trasmissioni marchiate Gialappa’s Band. I tre Gialappi sono forse stati i primi a celebrare un rito collettivo che ci vede ancora oggi commentare goliardicamente video di vecchi rocker alle prese con polli o di anchorman di televisioni locali in cattivi rapporti con quel “mona che batte la porta e che chiude urlando”, creando tormentoni infiniti. E sfido la maggior parte di voi a non averne uno, che vi lega ad un amico o ad un gruppo di amici. Parodie di personaggi che per la maggior parte delle volte non sappiamo bene da dove vengano o chi siano, la loro esistenza si limita a quei pochi minuti grotteschi.

The Disaster Artist racconta la storia di uno di loro, Tommy Wiseau. Regista nato non si sa quando, non si sa bene dove (in una recente intervista al Jimmy Kimmel live! afferma di essere di origine polacca), Tommy comincia ad essere popolare dopo che il suo film d’esordio, The Room, diventa pellicola di culto in tutto il mondo. Il film incassa 1800 dollari nel week-end d’apertura a fronte di una spesa di 6 milioni di dollari, e dai critici dell’epoca viene bollato come “il Quarto Potere dei film brutti”. Col tempo il film comincia ad essere apprezzato in tutta America per la sua involontaria comicità, per l’inconsistenza dei dialoghi, la pessima recitazione dei suoi protagonisti ma soprattutto per Tommy, il suo regista e protagonista. Cercare di inquadrarlo è difficile quasi quanto interpretarlo (e questo James Franco lo fa splendidamente). È continuamente fuori luogo, sempre fuori tempo con le battute e con un accento dell’est europa che alimenta la sua indecifrabilità. Capelli lunghi untissimi, occhialoni da sole sempre indossati e l’espressione di uno che si appena fumato dio solo sa cosa. Se c’è una regola nell’Internet è che qualcosa di così ridicolo non può che essere una macchina di visualizzazioni e like, e quindi, soprattutto su YouTube, nascono video parodie che non fanno che accrescere la popolarità del film.
Per chi se lo fosse perso: la cosa più bella concepita dall’internet.
Il film di James Franco ci porta a scoprire cosa c’è dietro il baraccone tirato su da Wiseau. Degli alti e bassi della sua amicizia con Greg Sestero (autore del libro sul quale si basa il film, interpretato da Dave Franco) e della loro “ascesa” ad Hollywood fatta più di belle intenzioni e sogni che di traguardi raggiunti. Ma soprattutto la pellicola racconta come è stato realizzato The Room. Ci porta dentro tutte le vicissitudini della produzione, tra le risorse economiche di Tommy inspiegabilmente senza fondo alle sue liti con la troupe e con il cast di attori. Ma soprattutto ci porta a capire perché The Room, così come il suo regista, sono così amati.
La prima scena ci viene incontro come chiave di lettura per l’intero film. The Disaster Artist apre in un corso di recitazione dove incontriamo per la prima volta un inespressivo Greg Sestero incapace di sfoggiare qualsivoglia talento per la recitazione. Incapace, forse, di esprimere se stesso. Poco dopo si fa avanti un individuo bizzarro, che, davanti all’intera platea di studenti, si esibisce in un qualcosa difficile da descrivere, in cui rantola, urla, lancia sedie pieghevoli addosso ai muri. L’esibizione colpisce profondamente Greg che capisce che quel tizio, Tommy, sa fare qualcosa che lui non sa fare: esprimersi.
Potrei spendere diverse righe parlando di come la regia sia adatta o meno, di come recitino gli attori o di come sia sviluppata o meno la storia. Mi importa poco. L’unica cosa che volevo che la pellicola di Franco facesse, è stata fatta.
Il film colpisce nel segno mettendo al centro dell’attenzione il profondo senso di solitudine di ogni artista, che lo porta cercare di esprimersi attraverso la propria arte. Certo, il modo in cui Tommy si esprime non è esattamente convenzionale, ma viene amato dal pubblico perché capisce la cosa più importante e più semplice: almeno ci sta provando. È chiaro che il principale motivo del suo successo è dovuto alla sua mancata consapevolezza di essere comico, però non riusciamo a non affezionarci a lui perché capiamo questo suo piccolo dramma. L’incapacità di farsi capire nonostante si sia fatto di tutto per farlo.
Il vero merito del film di Franco è quello di farci capire che The Room, nonostante sia effettivamente un film brutto, nasconde una piccola scintilla che è propria del vero cinema.

A fronte di centinaia di film di serie Z fatti con lo stampino, giusto per racimolare qualche centesimo col mercato Home Video, The Room ha cuore. Quello sgangherato del suo autore, ma comunque ce l’ha. E, inconsapevolmente, Tommy è riuscito negli anni a portare gente al cinema. Il culto attorno a The Room è diventato tale da portare molte persone ad organizzarsi in proiezioni in sale di mezzanotte dove gli spettatori, vestiti come i protagonisti del film, ridono e urlano contro lo schermo, ripetendo a memoria le battute più famose. Senza volerlo Tommy è riuscito a perpetuare, nell’era di Netflix e dello streaming, il rito, vecchio come il cinema, di andare insieme in sala e viverla come un evento sociale. Forse grazie a quella genuinità strampalata che ci piace tanto di lui.
Hi doggies.
Ah, guardate il film fino alla fine dei titoli di coda.
E fate un salto anche dai nostri amici I Soliti Cinefili!