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Fatevi un favore, guardate il documentario su Spielberg

Se dovessimo scegliere un termine per descrivere gli anni dieci del ventunesimo secolo al cinema credo che sarebbe senz’altro nostalgia. Quanto meno dalle parti di una Hollywood forse leggermente a corto di idee, pare che ci si sia focalizzati più nel rimasticare l’immaginario anni 70-80 che nel produrne uno nuovo. E quindi via di nuove trilogie targate Star Wars, sequel di Blade Runner e remake di IT fino a prodotti televisivi come Stranger Things che della retromania ne fanno una bandiera.

Per questo motivo uno dei blockbusteroni più intriganti in uscita nel 2018 (il 30 marzo), per quanto mi riguarda, risulta essere Ready Player One, film tratto dall’omonimo romanzo scritto da Ernest Cline e diretto nientepopodimeno che da Steven Spielberg. L’opera all’origine della pellicola si inserisce perfettamente nel filone della retro nostalgia nerd, dal momento che attinge molto dal mondo videoludico anni ’80, da Blade Runner (1982) o da 2112, album del ’76 dei Rush. Nel trailer fracassone del film vediamo riferimenti (tra gli altri) al Gigante di Ferro, a Ritorno al Futuro e perfino a personaggi più recenti della cultura pop come Tracer di Overwatch. Nell’ultimo trailer fa una breve comparsa una vecchia conoscenza degli amanti dei film di Spielberg, ovvero quell’adorabile cucciolone che è il T-Rex della serie dei Jurassic Park che ha indotto a domandarmi quanto il regista di Cincinnati abbia intrapreso la via dell’autocitazionismo nella sua ultima fatica. In un certo qual modo ciò che mi affascina di più è vedere come il regista si relazionerà citazionisticamente in retrospettiva a quell’epoca alla quale tanto ha dato da regista e produttore. È inutile che sottolinei quanto Spielberg abbia contribuito a forgiare quell’immaginario pop al quale faccio riferimento in testa all’articolo. Oltre che da regista, da produttore ha sfornato cult come Gremlins, Ritorno al Futuro, I Goonies, Chi ha incastrato Roger Rabbit e tanti altri che solo elencandoli riempirebbero per interezza l’articolo.

Mi chiederete: tutto sto preambolo per cosa? Legittimamente, per quale ciufolo di motivo vi potrebbe interessare del mio hype? È forse perché non sapevo come cominciare l’articolo? Sì, anche, ma soprattutto perché, in seguito alla visione del sopracitato trailer, mi è ritornata in mente l’esistenza di un documentario prodotto da HBO, realizzato da Susan Lacy, su, appunto, Spielberg. L’ho vista come un’occasione di entrare nel backstage della mente che ha segnato quell’epoca del cinema Hollywoodiano e che ha largamente contribuito a creare quel famigerato immaginario al quale tanto spesso facciamo riferimento. E, cari lettori del MacGuffin, ho fatto bene. Più che una recensione o un commento, questo vuole essere uno spassionato consiglio a chi ama il cinema americano: guardatelo.

Sulle note di un immancabile John Williams, il documentario parte da uno Spielberg bambino che modella la sua idea di cinema su Lawrence d’Arabia di David Lean, passando a quello poco più che adolescente che si intrufola negli studi della Universal in cerca di un ingaggio, per continuare poi a quello sperimentatore dello Squalo che sarà uno dei picchi di maggior successo della Nuova Hollywood. Tra le travagliate vicende familiari alle grandi amicizie con compagni di merende quali Scorsese, Lucas, Coppola e De Palma (i cosiddetti “Movie Brats”), i successi travolgenti e le grandi critiche, tra aneddoti da set e il rinnegamento di una fede poi cercata e ritrovata, Susan Lacy ci restituisce il ritratto di un uomo che torna bambino ogni volta che rientra in un set e che vuole trascinare lo spettatore con sé. Il montato finale è una parata di sequenze e frame spettacolari che si amalgamano con interviste a colleghi e collaboratori, da J.J. Abrams a Daniel Day-Lewis, da Kathleen Kennedy a Martin Scorsese.

L’equivalente cinematografico del Dream Team alle Olimpiadi del ’92

Un po’ come il pezzo che state leggendo, il documentario pecca leggermente nel celebrare acriticamente il regista, ma cosa ci volete fare, se siete, come me, un bambino cresciuto negli anni ’90 sognando di diventare Indiana Jones, è inevitabile eccedere con il miele. In tutta onestà, però, Spielberg di Susan Lacy è una sincera lettera d’amore al cinema, per tutto quello che rappresenta, per chi sta dietro una cinepresa e per chi, come noi, lo vive nel buio di una sala cinematografica.

Marco Possiedi

Nato alle pendici delle Dolomiti e studente di Psicologia. Appassionato in primo luogo di divani e di conseguenza poi della settima arte, tra un tiro a canestro e un film di Terry Gilliam, passo le mie giornate ad aspettare la lettera di ammissione ad Hogwarts che si sa che i gufi non funzionano più come quelli di una volta.
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