
Bande à Part: voglia di Nouvelle Vague?
Ci sono cose che sono come i corsi e ricorsi storici: prima o poi tornano di moda. Le spalline imbottite, il cocktail di gamberi e le zeppe, tanto per citarne alcune. E la Nouvelle Vague: così francese, così naïve, così poco Anni Cinquanta eppure così immersa in quel periodo storico. Michel Hazanavicius ha furbescamente gettato nelle sale di mezzo mondo l’agiografia Il mio Godard; ma se volete davvero assaporare qualcosa sul genere, lasciate perdere tutto ciò che è stato girato dopo il 1965 e fatevi incantare da Bande à Part, questo sì realizzato da Jean-Luc Godard, pioniere del genere, e recentemente restaurato e riportato a nuova vita.
Girato in un solo mese, tra il febbraio e il marzo del 1964, Bande à Part racconta le (dis)avventure di Arthur (Claude Brasseur), Franz (Sami Frey) e Odile (Anna Karina): i due ragazzi sono dei simpatici perdigiorno che hanno come ambizione principale vagabondare per Parigi a bordo di una cabriolet, mentre Odile è la charmante compagna di classe di inglese, la quale si lascia sfuggire che il pensionante della zia tiene nascosta in casa una grossa somma di denaro. Sembrerebbe il colpo del secolo: Arthur e Franz iniziano a corteggiare gli occhioni da cerbiatto di Odile, prima per scherzo, poi per portarsi a casa il bottino, infine per infatuazione vera e propria. Lei naturalmente fa la ritrosa, l’indecisa, la seduttrice: sembra preferire Arthur, ma l’idea del ménage à trois non le dispiace affatto. Questo fino al giorno del colpo, dove le cose non vanno come previsto: per fortuna che tra cugini malavitosi, spari inaspettati e perdita di innocenza, resta ancora il Sudamerica come ancora di salvezza.
Bande à Part è come la Francia: o lo si ama o lo si detesta. Nonostante le leziosità, il tono fintamente scanzonato, la ripresa quasi fotocopiata delle dinamiche di Jules et Jim che era stato creato appena due anni prima dalla mano di Truffaut, io faccio parte della prima categoria: per il bianco e nero che riesce a far sembrare Parigi un paesino di campagna, per la voce fuori campo che ci accompagna nei pellegrinaggi dei protagonisti, per le smorfie di Anna Karina durante la lezione di inglese. E per due scene che sono entrate nella storia del cinema: il ballo nel bistrot – non vi dice niente il twist di Pulp Fiction? – e la corsa forsennata e spensierata tra le sale del Louvre.
E non è tutto: Bande à Part riesce a prendere i noir di serie B made in U.S.A. e a trasformarli in un capolavoro di ironia e nostalgia. Arthur, Franz e Odile si atteggiano a gangster, ma non sono altro che dei bambini ingenui, selvaggi, un po’ annoiati e affamati di futuro; e se Parigi è la culla e il Sudamerica l’ultima frontiera da raggiungere, la periferia della città diventa una metafora del ritorno alle origini. Piccola chicca: ai tempi Anna Karina era la moglie di Godard. Sperando di salvare il matrimonio e di strappare la donna dalla depressione, il regista la sceglierà come protagonista del film forse a lui più caro; manco a dirlo, questo metodo si rivelerà fallimentare.
Bande à Part è una cartolina da Parigi appena prima del Sessantotto: c’è del fermento ma è ancora indistinto, c’è voglia di nuovo ma questo nuovo non si sa bene cosa sia, c’è allegria ma anche ferocia. Da vedere quando si ha voglia di un tuffo spassionato e senza tempo nella Nouvelle Vague. E nella Francia.