Film

Annientamento, la mente che si perde nella ricerca di un faro

Non è un caso che tutto inizi e tutto finisca nei pressi di un faro in Annientamento (in originale Annihilation), quasi fin troppo esplicito richiamo ad un punto di riferimento che si va via ricercando nella pellicola e che pare, invece, essere sempre più fuori portata. Alex Garland, dopo Ex Machina si cimenta ancora una volta in un film di fantascienza in cui l’intelletto umano viene messo a dura prova da un’entità dalla natura diversa dalla nostra. Se nel film che ha regalato l’Oscar ad Alicia Vikander  era una macchina a sfidare la nostra intelligenza in una mortale partita a scacchi, in Annientamento quello con cui i nostri protagonisti hanno a che fare è un “qualcosa”. Non a caso ho scelto il termine più generico possibile, perché la natura della minaccia che grava sulla terra è tutto tranne che facilmente catalogabile.

Lena (Natalie Portman), professoressa di biologia ed ex militare, per comprendere il mistero che la tiene lontana da suo marito Kane (Oscar Isaac, anch’esso militare) da oltre un anno, si trova costretta a doversi inoltrare a sua volta nella zona contaminata nella quale Kane è stato mandato in missione tempo prima. Al centro di questa zona rossa, il faro. Un po’ come Apocalypse Now  era un viaggio verso il punto più profondo di un inferno Dantesco avvolto dalla giungla tropicale in cui verità e perdita della ragione si mescolavano indissolubilmente, in Annientamento , più ci si avvicina al faro e alla soluzione del mistero, più la mente perde di consistenza e la natura smarrisce coerenza. È infatti la biologia stessa degli esseri viventi a cambiare regole, a mutare in modi impossibili, generando ricombinazioni genetiche senza senso. È nel generare questo senso di smarrimento che Garland vince parte della sfida che lancia in questo film. Il regista scopre le bizzarrie dell’ambiente contaminato lentamente, in maniera tale da far crescere in maniera costante l’angoscia nello spettatore che si ritrova di fronte ad uno scenario tanto familiare quanto estraneo. Boschi verdi e rigogliosi ma inondati da una innaturale luce cangiante fanno da testimoni di una contaminazione che gioca con la natura e randomizza una sua qualsiasi variazione. La forza di Ex Machina risiedeva in Alicia Vikander che riusciva a ritrarre l’intelligenza artificiale del proprio personaggio attraverso una serie di espressioni, si fedeli a quelle umane, ma con piccole differenze che le conferivano un ché di sinistro. In Annientamento questo compito viene delegato all’ambiente naturale, ai boschi, ai fiori, agli animali.  Aiutato in questo da un impianto visivo e sonoro decisamente potente ed intrigante, che da solo merita la visione del film, lo sceneggiatore e regista della pellicola si dimentica di dare corpo ad una storia e a dei personaggi che risultano essere un po’ troppo abbozzati.

Le dinamiche tra le componenti della squadra sono prevedibili e la loro psicologia è a dir poco inesplorata. In un film dove la volontà di ferro della protagonista si rivelerà importante nello svolgimento della vicenda, il fatto di non capire davvero l’effetto che la zona contaminata provoca negli altri personaggi, per mancanza di profondità psicologica degli stessi, indebolisce la storia. Per atmosfere e sensazioni il film di Garland è in dichiarato debito con Stalker e Solaris di Tarkovskij del quale però non riesce davvero a raggiungere la profondità nei temi che tratta. Dalla Zona di Stalker, in cui addirittura le leggi stesse della fisica cominciato a non essere più rispettate, all’imperscrutabile oceano di Solaris e ai suoi effetti sulla psiche umana, i riferimenti sono espliciti. Al netto di tutti i difetti legati alla cura dei personaggi come anche i numerosi  flashback alla lunga leggermente stucchevoli nel loro interrompere la tensione, probabilmente il vero problema del film è che il fatto che apre troppi temi senza riuscire a chiuderne nemmeno uno. Dal destino della psicologa Ventress (Jennifer Jason Leigh) al discorso sugli istinti di autodistruzione dei personaggi e dell’entità che si propaga dal faro. D’altro canto il film trae forza da una narrazione per immagini, come già detto, particolarmente interessante, fatta d’invenzioni visive pregevoli e atmosfere ipnotizzanti, che danno il massimo in un finale, seppur criptico, visivamente molto potente.

In conclusione non si può che applaudire in maniera entusiasta lo sforzo del Garland regista, storcendo il naso, in contemporanea, per il lavoro del Garland sceneggiatore.

 

Marco Possiedi

Nato alle pendici delle Dolomiti e studente di Psicologia. Appassionato in primo luogo di divani e di conseguenza poi della settima arte, tra un tiro a canestro e un film di Terry Gilliam, passo le mie giornate ad aspettare la lettera di ammissione ad Hogwarts che si sa che i gufi non funzionano più come quelli di una volta.
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