
L’immortale: perfetta estetica brutale
L’ultimo film di Takeshi Miike si può definire con due parole, anzi tre: perfetta estetica brutale. Avete presente le promozioni degli influencer, o anche il bookstagram folle, con foto costruite in maniera impeccabile? Ecco, L’immortale, presente su Netflix da ormai qualche mese, è così: essenziale nei suoi aspetti più crudi, una brutalità da performance. L’immortale (Blade of the Immortal in originale) è tratto dal manga ideato da Hiroaki Samura e, se vi ritrovate a sfogliare qualche sua pagina prima di vedere il film, non preoccupatevi (o forse sì, immagino dipenda dalla vostra sensibilità): il manga è molto più disturbante della sua trasposizione che è stata, purtroppo, in qualche modo alleggerita e moderata.
Manji (Takuya Kimura), l’immortale del titolo, si ritroverà a coprire il ruolo di yojimbo, di guardia del corpo, della giovanissima Rin (Hana Sugisaki), che vuole vendicarsi di un gruppo di ronin che ha ucciso suo padre e compiuto una strage nel dojo della sua famiglia; del resto il progetto dell’Ittō-ryū, con a capo Anotsu Kagehisa (Sota Fukushi), è proprio eliminare tutti i dojo concorrenti, per creare un’unica grande scuola.
Se L’immortale è una buona, anche se non ottima, storia di samurai, è anche un film che usa al meglio e sa come calibrare l’elemento soprannaturale, tenendolo in equilibrio e gestendolo in maniera proficua.
Perché Manji è immortale grazie a (o a causa di, anche in questo caso tutto dipende dal vostro persona punto di vista riguardo all’impossibilità di mettere fine alla vostra vita) delle sanguisughe, dei parassiti che vivono all’interno del suo corpo, bloccando il suo decadimento e rimarginando qualsiasi ferita.
E questa sfumatura orrifica (e mi sembra ovvio, piacevolmente disgustosa) è introdotta fin da subito: è una strega a infettare Manji morente, che implora che gli venga tolta la vita per risparmiargli altre sofferenze.
Il film ha ricevuto alcune critiche positive ma più in generale non è stato molto apprezzato. Immagino che a differenza degli altri film di Miike questo sia molto più trattenuto e “standard” e che un lettore del manga lo troverà più leggero rispetto al cartaceo.
Tuttavia è un film piacevole, che appunto sa tenere insieme samurai e soprannaturale senza falsificare la storia rendendola disomogenea, capace di offrire allo spettatore quello che promette; le coreografiche sono perfette, esperte e memorabili, la brutalità seppur non così incisiva è comunque precisa ed essenziale. Alla fine di ogni combattimento la camera si allontana per rivelare pile e pile di cadaveri, corpi che occupano tutto lo schermo.
Ogni scagnozzo dell’Ittō-ryū è un nuovo combattimento da gustare fino alla fine, spesso con risvolti quasi comici grazie a un continuo proliferare di armi e power-up. E il povero Manji è invincibile ma comunque soggetto a ferite e smembramenti, così il suo plot armour è giustificato ma allo stesso tempo inutile. Essere “protetto” dalle sanguisughe non gli impedirà di perdere un arto o sanguinare copiosamente.
L’immortale è cattivo e brutale, ma è ancora una storia di samurai, da gustare anche più di una volta, diventando un cruento comfort movie.