Film

Fino all’ultimo respiro: ancora voglia di Nouvelle Vague?

Da pochi giorni abbiamo la notizia che Jean-Luc Godard tornerà in concorso a Cannes con il suo nuovo Le Livre d’Image: questo è un ottimo pretesto per parlare di uno dei suoi sempreverdi capolavori, Fino all’ultimo respiro.

Parto subito con una provocazione: se non apprezzi Godard, probabilmente, o non ti piace il cinema o le tue capacità cognitive sono estremamente limitate. Quindi, che nessuno si azzardi mai a parlarmene male, perché non ci sono ragioni per cui potrei trovarmi d’accordo con questa persona.

Ma facciamo un passetto indietro.

In un contesto in cui Guerra Fredda e Guerra d’Algeria davano spazio soltanto a un cinema patriottico e nazionalistico, questo gruppo di giovani, lo stesso Godard, Melville, Truffaut, per fare dei nomi, che avevano visto i grandi film di Hitchcock, Renoir o Rossellini, decisero che era il momento di dire basta e presero a essere quanto più egocentrici possibile: per la loro politica, il film coincideva non con le sue componenti, ma con il regista solamente.

E, così, nel 1959, che per i cineasti è quello che fu l’anno mille per i contadini nel medioevo, esce I 400 colpi di Truffaut, e poi, sempre nello stesso anno, vede la luce anche il nostro Fino all’ultimo respiro. 

Quanto è importante Fino all’ultimo respiro?

Tanto: il film di Godard è il vero manifesto della Nouvelle Vague, non tanto per la sua trama, che ruota attorno alla vicenda amorosa tra Michael AKA Laszlo Kovacs (il cui nome, tra l’altro, è di un direttore della fotografia reale, che ha curato quella di Ghostbusters, ad esempio), spiantato criminale colpevole di omicidio, e Patrizia, che lo ama ma è frenata dalla sua vita criminale, quanto per il regista stesso: Godard mette nel suo film tutto ciò che vuole rappresentare, dalle camminate sugli Champs-Elysees riprese in base al bollettino meteo del giorno, ai passanti che guardano gli attori perché si accorgono della telecamera nascosta sulla bicicletta… Fino all’ultimo respiro è vita quotidiana in continuo movimento, che, con gli occhi del regista, assume un enorme valore artistico. 

Ma non solo, il cinema di Godard è anche controtendenza: non simile a quella di Hopper in Easy Rider, ma di fondo. Qualunque cosa sia possibile registrare come regola del cinema “importante” del periodo, Godard la fa al contrario. Basti pensare alle scene iniziali in macchina riprese dal sedile posteriore piuttosto che frontalmente, o anche lo spazio dato alla parte dialogica e all’improvvisazione degli attori rispetto alla durata delle scene che portano avanti l’effettiva trama del film.

Godard fa anche metacinema facendo parlare Belmondo spesso con lo spettatore, soprattutto nella sequenza iniziale, e, insomma, spezza tutte le regole stilistiche e narrative che il cinema tradizionale offriva, regalando allo spettatore e alla storia un favoloso esempio di puro cinema che ora come al tempo è pura avanguardia.

Ma questo non avviene perché Godard odi il cinema d’autore, anzi, la citazione al noir è puntuale e frequente, la tecnica del regista è modellata su uno studio e poi superamento del classico: l’insieme di queste e delle già citate componenti fanno di Fino all’ultimo respiro un capolavoro pressoché eterno.

fino all'ultimo respiro

 

Vincenzo Di Maio

Nasce in quel di Napoli nel 1998 ma è rimasto ancora negli anni '80. Spesso pensa di esser stato un incidente ma i suoi genitori lo rassicurano: è stato molto peggio. Passa la totalità della sua giornata a guardare film e scrivere, ma ha anche altri interessi che ora non riesce a ricordare. Non lo invitate mai al cinema se non avete voglia di ascoltare un inevitabile sproloquio successivo, qualunque sia il film.
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