
L’assassinio di Jesse James, scrivere una leggenda tra codardia e realtà
Il Missouri non è la foresta di Sherwood, non ci sono sceriffi di Nottingham e nessun re tornerà mai dalle crociate. Robin Hood, tuttavia, vive. Ma ruba solo per se stesso.
Nel 1881 un’America con più di cento anni alle spalle ma ancora bambina, è lacerata degli esiti della guerra civile. Sconfitti, gli stati del sud hanno bisogno di eroi ai quali aggrapparsi, sui quali costruire una narrativa popolare alternativa. Mentre nel resto degli Stati Uniti proliferano le celebrazioni dei vincitori della guerra (Lincoln su tutti), negli stati confederati si genera un racconto parallelo, fatto di eroi con una mitologia completamente diversa.
Figli di un’America minore, subordinata ai valori di quella unionista del nord, gli abitanti del sud guardano ai loro ex combattenti come a degli eroi sconfitti romanticamente dagli oppressori dalle divise blu. In The Hateful Eight, l’ex generale sudista Sandy Smithers, pur protagonista di atrocità nei confronti della gente di colore, è considerato un eroe da Mannix (figlio di un militare confederato). In quanto uomo e soldato del sud, in quanto condivide il destino da perdente con le persone che lo ammirano. Un eroe di un pezzo di Stati Uniti domato e non più libero di autodeterminarsi indipendentemente.
In questi contesto, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford tesse le fila della storia di come il famigerato bandito Jesse James perse la vita per mano di un giovane componente della sua banda, Robert Ford, appunto.
Il film, un’anomala pellicola di confine, a tratti più vicina al genere gangster che al western, si prefigge il compito di raccontare le vicende della banda dei fratelli Frank e Jesse James (i cui componenti sono interpretati tra gli altri da Jeremy Renner e Sam Rockwell). Narra della storia di un ragazzo che tradisce e viene tradito dal suo mito. Dell’avere vent’anni e capire che il mondo come hai pensato di conoscerlo non esiste.
Ultimo di un’infinità di film legati al celeberrimo bandito, il film, scritto e diretto da Andrew Dominik, cerca una prospettiva diversa nei confronti della vicenda. È in effetti proprio attorno al concetto di prospettiva che si articola l’intera pellicola. Perché Jesse è un eroe. O forse no.
Non deruba i treni per ridistribuire il bottino tra la sua gente, ciononostante viene considerato un eroe. Attacca solo carrozze unioniste, rapina solo banche nordiste. Lo stesso Bob Ford (Casey Affleck), sprovveduto quanto può essere un ragazzo di vent’anni, lo considera una leggenda, ne legge i movimenti, le espressioni per replicarle, per assorbire quanto più riesce da lui.
Dominik inquadra più volte Jesse James (Brad Pitt) come se fosse un personaggio mitologico. Jesse è continuamente ripreso mentre scruta l’orizzonte come in cerca di risposte, mentre cammina in un campo accarezzando il frumento (quasi alla Massimo Decimo Meridio) o si staglia nell’oscurità di fronte a un treno nella notte, quasi come bastasse la sua silhouette a fermarlo. Il tutto attraverso ricercate inquadrature segnate da vignettature che sfocano il bordo dell’immagine e l’incantevole colonna sonora composta da Nick Cave e Warren Ellis (che da sola merita la visione della pellicola). Così facendo alla figura di Jesse viene regalato un che di indecifrabile, misterioso, legato al mito.
Se però il Dominik regista, per tutta la durata della pellicola, ci mormora nell’orecchio della leggenda di Jesse James, il Dominik sceneggiatore costruisce una storia diversa, cruda e senza pietà per la dimensione iconografica dei personaggi. Jesse è sì un leader carismatico, ma è allo stesso tempo lunatico, violento e senza scrupoli. Non esita a uccidere a freddo innocenti e incombe come un’ombra sinistra sulle vite dei componenti della sua banda. L’intero vortice che culmina con la sua morte è un susseguirsi di paranoie e pugnalate alle spalle di compagni di rapine che diventano nemici mortali. I banditi della gang dei fratelli James non sono romantici difensori della causa sudista. Sono per lo più zotici, affabulatori e in tutti i casi uomini col dito sul grilletto più veloce del loro stesso cervello. Se Walter Hill nel suo I cavalieri dalle lunghe ombre era decisamente più clemente con gli elementi della banda James, delineando loro tratti di un sud fiero e dignitoso misto ad un romanticismo da western crepuscolare, Dominik contrappone alla banalità del male dei banditi, la raffinata dimensione visiva che dà alla pellicola (plasmata anche dalla fotografia del solito ispiratissimo Roger Deakins). L’ampio respiro della leggenda contro la crudezza della storia vera. Robert Ford scopre a sue spese quanto in realtà le pagine del mito dei fratelli James siano grondanti di sangue e che tutte le ballate sul loro eroismo siano più che altro storielle per ragazzini. Una volta smesso di essere un adolescente sognante scoprirà che in quell’America non c’è spazio per gli eroi.
Dominik restituisce attraverso la propria regia la connotazione quasi onirica del racconto popolare, fatto di storie che cambiano di racconto in racconto, che si arricchiscono ad ogni passaggio, ad ogni narratore, fino a diventare più lo specchio di ciò che vuole ascoltare la gente, rispetto a qualcosa aderente alla realtà dei fatti.
Ciononostante al termine della visione del film di Dominik si ha l’impressione di aver assistito alla ballata epica di un pezzo di Stati Uniti che ha eletto i propri paladini. Uomini contro tutto. Jesse era il simbolo di un’idea di libertà individuale che è ancora oggi fertile negli stati del sud. Non importa quanto sia violenta la strada per ottenerla.
La luce svanì dai suoi occhi prima che potesse trovare le parole giuste.
Le parole giuste appartengono ai cantori, agli eroi non rimane che il tempo per morire.