
7 MOTIVI PER RIVEDERE “UNDER THE SKIN”
Un noto aforisma di Friedrich Nietzsche termina in questo modo:
“E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te.”
Diretto dal regista di Rabbit in Your Headlights, Under the Skin (2014) è quanto di più simile a un abisso si possa trovare nel cinema contemporaneo.
Chi nel 2014 aspettava la solita pellicola di sci-fi, o peggio ancora un’ennesima vedova Marvel in versione aliena, ha dovuto fare i conti con un prodotto estremamente diverso.
Sulla falsariga del romanzo a cui si ispira, infatti, l’opera di Jonathan Glazer mette ben poco in risalto gli ambiti tipici della fantascienza, favorendo anzi un approccio percettivo. In parole semplici, e fingendo spudoratamente che la cosa non mi entusiasmi, Under the Skin non è affatto un film di fantascienza. Piuttosto è un film di orrore, riscoperta, amore e disgusto. La storia di una creatura “aliena” in senso strettamente aggettivale, ossia di forza estranea, diversa ma non necessariamente extra-terrestre.
La forza estranea in oggetto ha il volto di Scarlett Johansson, nel film Laura. Svolge l’antico compito della sirena greca adescando uomini e uccidendoli: è la selkie delle cittadine scozzesi, una creatura di leggendaria bellezza che viene dal mare e veste pelle di donna.
Il lungometraggio la vede alle prese con un timido percorso di consapevolezza che la porterà a mettersi totalmente in discussione (e, cosa ben più importante, a denudarsi).
Omettendo la già accattivante prospettiva di una Johansson completamente nuda, ecco una piccola lista di retroscena, curiosità e particolari che potrà di certo incuriosire qualcuno.
1. Irrealtà reale. Il cast che affianca la bella attrice è stato selezionato, mmm diciamo, un po’ a caso. O meglio, premeditatamente a caso: gli attori dovevano semplicemente ricordare persone comuni. Come se non bastasse, alcune scene sono nientemeno che birbonate in cui la Johansson cerca di adescare veri passanti, riprendendo a loro insaputa attraverso una telecamera nascosta. La natura fittizia di Laura e questa concretezza esasperata coesistono beatamente, e i bozzi sul volto di Adam Pearson, veramente affetto da fibrosi cistica, ne sono un altro esempio.
2. Sembra morte ma non è. La donna a cui Laura ruba i vestiti non è ancora morta. Anzi, temo anche sia perfettamente conscia di ciò che le accade intorno. Vittima di una sorta di paralisi, il volto impassibile cela il suo tumulto. Una curiosità riguarda la sua somiglianza con la Johansson: secondo il casting director Kathleen Crawford, pare che l’intenzione di Glazer fosse di profetizzare il destino della stessa Laura.
3. Come una vera umana? La Johansson, il cui volto imita per lo più quello di un kuros dallo sguardo ieratico, sbatte le palpebre in una sola occasione, e scelta per niente a caso. Indizio: accade più o meno alla fine. Curioso infine come a un’aliena apparentemente inespressiva si coniughi invece un ambiente tanto vivo e impetuoso: figurarsi che proprio una delle scene costiere avrebbe l’intento di riprodurre il famoso olio su tela di Caspar David Friedrich, cui oggetto è un mare in tumulto.
4. Il rito di seduzione. Questa scena emblematica si accompagna al vago senso di ripugnanza del morto che puzza ancor prima di morire. In una stanza priva di pareti, il pavimento sembra liquefarsi per accogliere la vittima al suo interno: qui il corpo fluttua in una sorta di liquido ancestrale, fino a ridursi a un involucro di pelle, forse destinata a un nuovo ospite.
5. Oscuri piaceri acustici. La compositrice britannica Mica Levi, creatrice della miglior colonna sonora agli EMA, è la responsabile dei miei prossimi collassi amorosi. Complici i violini da calli alle orecchie, il romanticismo dolcemente infetto, le atmosfere sguarnite ora irreali ora taglienti. Ma soprattutto i violini da calli alle orecchie.
6. Il fascino del film incompreso. Gli incassi sono stati deludenti: si parla di 13 milioni spesi per la realizzazione contro poco più di 5 guadagnati.
7. Umanità capovolta e mutuali rivelazioni. A un certo punto, Laura guarda nell’abisso. O più precisamente, in uno specchio. Si innesca qui una duplice rivelazione: mentre l’aliena comprende l’umanità sempre più a fondo, infatti, lo spettatore vive un terribile percorso inverso, in cui l’umano si accorpa al disumano dando il via a un sinistro divenire. Paradossale notare, in sintesi, come in questo film sia proprio la freddezza aliena—ovvero quanto di più lontano dall’uomo si possa immaginare—ad assumere tratti tipicamente umani.
Ragionando inversamente, è dunque lecito chiedersi se l’umanità stia perdendo qualcosa?