Questa è la storia di un’attrice che ha fatto di tutto: è diventata famosa per la criniera rossa e il sorriso smagliante, si è tinta di biondo e si è messa improbabili minigonne leopardate per arraffare tutti i più prestigiosi premi sulla piazza, ha pubblicizzato antirughe e ha combattuto per i diritti dei più deboli.
Solo che oggi non ci concentreremo sugli aspetti più nobili e socialmente impegnati di questo personaggio, bensì sui lati più leggeri e scanzonati – oltre che sacrosanti, che sono poi quelli che l’hanno fatta diventare l’icona indiscussa del decennio compreso tra il 1990 e il 2000 nonché il mito assoluto di tutte le bambine dell’epoca, ivi compresa la sottoscritta.
Ancora non avete capito di chi stiamo parlando? Suvvia, soltanto lei può essere tutto questo: l’inimitabile, sorridentissima e pure simpatica Julia Roberts.
La Roberts nasce nel 1967, inizia con gli studi giornalistici ma ben presto decide di seguire il fratello nella sgargiante Hollywood. Dopo cinque film di poco conto e qualche comparsata in Miami Vice e dintorni, ecco la svolta che tutte le ragazze sognano: un milionario charmant e galantuomo disposto a tutto pur di diventare il suo principe azzurro.
In questo caso, il milionario in questione si chiama Richard Gere e il suo maggiordomo è il regista Garry Marshall: i due mettono in scena quel capolavoro di clichés, romanticismo e lieto fine che risponde al nome di Pretty Woman. Siamo nel 1990 e l’Hollywood Boulevard pullula di squillo disincantate e scanzonate, tra cui una finta biondina che si rivela essere una rossa con un discreto cervello sotto tutti quei ricci. Mentre le sue colleghe raccattano camionisti e spostati, davanti al suo metro quadrato di marciapiede accosta una limousine da cui si affaccia uno che oltre a essere ricco sfondato è anche bellissimo e gentile – per dire, da noi di solito un tycoon famoso e con un debole per le donne non riesce a superare il metro e sessanta. Il quale le propone non una notte, ma un’intera settimana in sua compagnia, ovviamente dietro lauto compenso. Business is business, e per di più le suite all’ultimo piano del Ritz non hanno mai fatto schifo a nessuno: Julia decide quindi di accettare. Inutile dire che dal solo-sesso si passerà al per-sempre-felici-e-contenti, il tutto condito da serate all’opera, cene a base di escargots e pomeriggi al country club.
Passano gli anni, e Julia è sulla cresta dell’onda: la recluta, fra gli altri, Woody Allen per il musical veneziano Tutti dicono “I Love You” (1996).
Tuttavia, è nell’anno successivo che la Roberts sbanca nuovamente al botteghino, questa volta con Il matrimonio del mio migliore amico. Alla regia c’è P. J. Hogan, ma il merito di cotanto successo è soprattutto della spalla di Julia, critica gastronomica invitata al matrimonio del suo ex con una più insopportabile del solito Cameron Diaz: ladies and gentlemen, vi presento Rupert Everett, irrecuperabilmente gay nella vita e anche nel film – prima che scattino le accuse di omofobia, la cacciata dai social network e l’estradizione da qualsivoglia forma di società, “irrecuperabilmente” perché per noi femminucce la faccenda è un vero dramma: sfido a trovare una donna che non sia innamorata persa del nostro Rupert.
Comunque, Julia fa nuovamente centro, tanto che due anni dopo replica con una formidabile accoppiata: Notting Hill, dove un’attrice di successo cade fra le braccia dell’imbranatissimo e inglesissimo libraio Hugh Grant, e Se scappi ti sposo, in cui viene riunito il team di Pretty Woman. Solo che in questo caso Julia è una donna onesta, con il solo vizio di fuggire di fronte a proposte di matrimonio troppo impegnative. Ed è per questo che piace: perché incarna le preoccupazioni – soavi, ça va sans dire – tipiche delle donne della sua generazione. Il principe azzurro va bene per le donne di strada, ma le altre si guardano bene dal rischiare di perdere la loro indipendenza. Salvo poi soccombere sulle note sdolcinate di Elvis Costello.
Con il nuovo millennio la Roberts si dà al cinema impegnato e lo fa egregiamente, vincendo con un solo film SAG, Bafta, Golden Globe ed Oscar: epperò, trovatemi una 20-30enne che ricorda con piacere Erin Brockovich. Non c’è niente da fare: Julia Roberts è ormai diventata sinonimo di commedia romantica, e poco importa se gli altri ruoli in cui ha recitato sono la maggioranza. Nessuno è memorabile quanto la prostituta che fa schizzare lumache per tutto il ristorante, si confida con il saggio concierge – ah, i riposanti luoghi comuni – e, dulcis in fundo, ne dice quattro alla commessa spocchiosa che si rifiutava di venderle i vestiti più eleganti.
O quanto la ragazza che si mette a cantare I Say a Little Prayer nel bel mezzo di un pranzo di famiglia pur di riconquistare il suo ex – anche se a ben pensarci chissenefrega dell’ex, la realtà è che vuole averla vinta sulla rivale quale che sia la posta in gioco. Vedete? Ancora una volta, Julia incarna pregi e difetti tipici delle ragazze della porta accanto, ed è per questo che è irresistibile.
È quanto di più distante ci possa essere da una diva, tanto da innamorarsi di un trentenne che vende con scarsissimo successo libri di viaggio e convive con Spike, un ragazzo che definire “strano” sarebbe quantomeno eufemistico; e da desiderare un matrimonio il più lontano possibile dai riflettori del paesino natale.
E la cosa meravigliosa è che gli anni passano, ma la Roberts è immutabile: nel 2010 ritorna sulle scene con Mangia prega ama a fianco di uno Javier Bardem più arrapante del solito; stavolta è una scrittrice in crisi di mezza età, ma con la stessa voglia di vivere di una bambina. Tanto da mollare il marito, fare il giro del mondo e innamorarsi perdutamente con un tramonto balinese sullo sfondo.
Da un lato tutto questo è un peccato, perché la Roberts ha dimostrato di avere talento da vendere con lavori come Mona Lisa Smile (2003) o Closer (2004); però, quanto è bello perdersi negli occhi di un Richard Gere magrissimo e immaginarsi un futuro degno di “quella gran culo di Cenerentola”?