
Jolly Blu: il senso di Max Pezzali per la metrica
Se tra i quattordici e i diciannove anni avete avuto il piacere di avere a che fare con il latino, di sicuro vi ricorderete i pomeriggi passati a imparare a memoria l’attacco delle Bucoliche di Virgilio. Non era un incipit qualunque: i professori pretendevano che lo si recitasse alla vecchia maniera, in pratica cantando. Se poi avete frequentato il liceo dei tempi miei, una volta terminata la sudata su declinazioni e casistica sarete andati a bervi una birra da qualche parte. Se, infine, avete frequentato le superiori nella ridente pianura padana, ci sarà stato un sottofondo costante alle vostre bevute/serate/primi stropicciamenti con l’altro sesso: il solo, unico, inarrivabile Max Pezzali, una sorta di Gigi d’Alessio cresciuto sopra il Po.
Le Bucoliche, dicevamo: un capolavoro di metrica e rigore. Ecco, dopo qualche ora passata ad analizzare cadenza e musicalità dell’opera di Virgilio, chiudevate i libri e a far riposare il vostro cervello arrivavano gli 883 con Un giorno così ed un ritornello di raro genio, sia per il ritmo impeccabile che per il testo dal sapore metafisico: “basta un giorno così a cancellare centoventi giorni stronzi”.
Le Bucoliche con Titiro che si riposa sotto un qualche albero e si diletta con la musica, da una parte; Max Pezzali che percorre la Statale 526 “con il cinquantino che gli caccia via tutti gli sbattimenti”, dall’altra. Il declino della civiltà occidentale spiegato con le audiocassette.
Questa pietra miliare della musica italiana è anche la sigla iniziale del film di Max Pezzali: perché il nostro, forte del successo avuto con le note, si è sentito un artista completo e ha deciso di cimentarsi anche con la macchina da presa. Correva l’anno 1998, e Stefano Salvati, che prima di allora non aveva mai girato cose più lunghe di tre minuti e mezzo, chiamava a raccolta attori del calibro di Giorgio Trestini, Natalia Estrada, Sabrina Salerno, Lorenzo Jovanotti, Alessia Merz (!!!), oltre ovviamente al frontman dei Beatles nostrani, per mettere in scena Jolly Blu, affresco di un’Italia che ancora sapeva sognare.
Raccontare la trama è complesso: semplicemente, non c’è. Jolly Blu cerca invano di narrare le vicende dell’omonimo bar di provincia dove sono soliti ritrovarsi Max ed i suoi amici, che non si capisce bene cosa facciano nella vita se non, appunto, incontrarsi al Jolly Blu, “la sala giochi/piena di giochi”. Difficile dire se Pezzali, quando ha ideato questa elaborata rima, fosse sotto acidi o stesse solo rimembrando con nostalgia la sua infanzia felice.
Da qui in poi è tutto un susseguirsi di episodi sconnessi, zoomate su tette e culi e canzoni sparate con la stessa linearità dei ruggenti album di Festivalbar Compilation Blu. Nota a margine: Max Pezzali è quello che si vede di meno, sebbene il film cerchi di intrecciare i travagli sentimentali della sua compagnia con la sua resistibile ascesa discografica. Ulteriore nota a margine: ogni brano è accompagnato dai sottotitoli, in modo che il pubblico possa lanciarsi in karaoke sfrenati e rendere il giusto tributo al cantautore più significativo della penisola.
Nonostante tutto ciò, per chi è nato e cresciuto negli Anni Novanta il film non può non suscitare un amarcord dolceamaro: le soubrettes dell’epoca presto dimenticate, gli ombelichi scoperti, la provincia italica dove non succede niente – quella di “due discoteche e centosei farmacie” – epperò che fatica lasciarla, ma soprattutto loro, le canzoni degli 883.
Infatti, facile con il senno di poi fare gli intellettuali e sparare sulla Croce Rossa, ma rifletteteci: a parte Max Pezzali, chi è stato in grado di inserire nello stesso brano le parole “cavalcavia”, “casello” e “Camogli”, oltre a una considerevole dose di parolacce che all’epoca facevano tanto proibito? Chi è mai riuscito a fare un complimento a una donna dicendole che i suoi capelli odorano di balsamo? Chi, infine, ha mai girato una sequenza dicendo “è l’ora del mito”, inquadrando la sgallettata di turno (solo una parte, ad essere precisi) e lanciando una canzone il cui attacco recita “tappetini nuovi Arbre Magique/deodorante appena preso che fa molto chic”? Bisogna essere dei poeti per arrivare a cotali vette.
Se a questo aggiungiamo la capacità di convincere a recitare un già affermato Jovanotti in un film così brutto – pardon, un musical fuori dagli schemi, in cui a una certa si fa persino risorgere un componente del gruppo dato per morto, si è costretti ad ammettere di essere di fronte all’opera più rappresentativa di quel decennio.
Il che la dice lunga su quel decennio.