
A beautiful day: la sobrietà della violenza e dell’alienazione
Approcciatevi a A Beautiful Day come con un qualsiasi revenge movie esagerato e tamarro alla Io vi troverò e, garantito, rimarrete estremamente delusi. Questa pellicola della scozzese Lynne Ramsay (autrice del bellissimo e altrettanto concettuale E allora parliamo di Kevin) è di quel tipo che, sulle prime, sembra non voler piacere a nessuno se non alla sua regista, ed è più vicina al tono secco e alienante di Taxi Driver e all’essenzialità di Drive di Refn che non alle testosteroniche scariche di adrenalina dell’action con Liam Neeson. E se possibile, è un film ancora più scarno ed essenziale rispetto agli altri due titoli citati. Ma a questo aspetto ci arriviamo tra poco.
La trama è la più basilare dell’universo: Joe (Joaquin Phoenix) è un reduce di guerra che nella vita si occupa dell’anziana madre e, al contempo, svolge il lavoro di sicario affrancando ragazze invischiate in un circolo di prostituzione minorile. Ma quando durante uno dei suoi ultimi lavori l’uomo finisce nel mirino di gente potente, non resta altro che la via della vendetta.
Partiamo subito dal nostro affezionatissimo Gioacchino Fenice. Il magnifico interprete di Il gladiatore, Walk The Line e Joker aggiunge al suo curriculum un altro ruolo grandioso. La figura di Joe, imbolsita e mentalmente disturbata, segnata da traumi infantili e pulsioni suicide, è perfettamente nelle corde dell’attore, mena le mani come un campione di MMA e funge da punto focale attraverso il quale leggere la visione della regista della giustizia in un ambiente urbano rarefatto e straniante. La corruzione ha inquinato tutti i livelli sociali nell’universo di A Beautiful Day, e solo un antieroe dall’inflessibile rigore morale come Joe, per quanto problematico, è in grado di far fronte a questo degrado sociale.
Essendo A Beautiful Day un film di vendetta, la violenza ha un ruolo centrale, anche se viene estetizzata attraverso soluzioni di regia molto particolari. Tralasciando alcuni momenti di pura esplosione sanguinolenta che mi hanno ricordato molto Oldboy (non a caso l’arma preferita di Joe è un martello), le scene più crude vengono riprese attraverso l’occhio gelido e assente delle telecamere di sorveglianza, sposandosi perfettamente alla bestialità trasandata e spietata del protagonista.
Commentato da una splendidamente dissonante colonna sonora di Jonny Greenwood, A Beautiful Day è un film formalmente perfetto. La macchina da presa si muove con delicati piani-sequenza e riprese fluide tra squallidi sobborghi e locali di lusso, mantenendosi sempre minimale ed elegante, pur concedendosi a qualche composizione dell’immagine che guarda alla pittura. Il look principalmente notturno della pellicola ricorda più Michael Mann che Refn, ma da quest’ultimo viene ripreso l’approccio ad una narrazione ridotta all’osso e basata principalmente sui sottintesi. E forse è proprio qui che si trovano i veri limiti del film.
In un’ora e mezza si parla davvero poco, e viene prediletta soprattutto la narrazione per immagini. Non che sia un problema, perché ciò giova ad un racconto che evita di dilungarsi in inutili appendici. Dove purtroppo la pellicola traballa è nella fin troppo insistita frammentazione della storia, privata di alcuni tasselli fondamentali. Ciò si apprezza perchè ha dato davvero l’idea dei deficit psichici di Joe, imprigionato in una gabbia di inquietanti ricordi infantili e squarci della parentesi bellica, ma a lungo andare ciò potrebbe dare ad alcuni spettatori una sgradevole sensazione di inconcludenza. Se l’idea iniziale era di riproporre il caotico intrecciarsi di realtà, allucinazione e azione violenta come atto di catarsi di Taxi Driver, il risultato forse è più grezzo del dovuto.
Ora però non lasciatevi fuorviare dal paragrafo precedente: A Beautiful Day è un bel film. Non carica di testosterone (non era quello lo scopo), ma è in grado di interessare e addirittura di far trattenere il fiato nei momenti più impensati. È un film spesso lirico ma mai esagerato, mai pomposo, a tratti faticoso ma solido e teso al punto giusto, a cui è mancato davvero poco per essere grande.