
Ad Astra: padri, figli ed ossessioni nello spazio profondo
Nonostante le recensioni americane siano state parecchio lusinghiere, di Ad Astra ho sentito parlar male sia da gran parte della critica nostrana sia dal pubblico. Nemmeno la nostra Sara Boero è rimasta particolarmente impressionata dallo sci-fi di James Gray. Un vero peccato, perché a me al contrario il film è piaciuto. E neanche poco.
Va detto che prima di Ad Astra non avevo mai visto una sola opera di Gray. I padroni della notte, C’era una volta a New York, Civiltà perduta… tutti titoli che non ho ancora avuto modo di recuperare. Quando sono andato al cinema, l’ho fatto perciò senza sapere che cosa aspettarmi. Ebbene, devo dire che l’ultimo lavoro del regista non è male come biglietto da visita.
Esempio perfetto di fantascienza umanistica, Ad Astra è una space opera di gran fascino, dal respiro epico ma allo stesso tempo intimista. Di primo acchito viene da pensare al cinema di Christopher Nolan, ma la firma di Gray è ancora più autoriale. Il regista adotta un ritmo lento e compassato, quasi alla Denis Villeneuve, e mira a restituire un’esperienza più meditativa e suggestiva che spettacolare. Non che manchino le scene d’azione, come il tesissimo inseguimento tra rover sulla Luna.
In tutto questo, lo scopo principale di James Gray è proporre un’originale rilettura fantascientifica di Cuore di tenebra, o meglio ancora del suo adattamento coppoliano Apocalypse Now. Come un novello Marlowe/Wilard, il protagonista di Ad Astra, l’astronauta Roy McBride, si troverà a compiere un lungo viaggio in un ambiente ostile, che tappa dopo tappa lo porterà a confrontarsi con il lato più oscuro del genere umano.
A Gray interessa in particolare instaurare un discorso sull’ossessione, i suoi effetti distruttivi e la necessità di “lasciare andare”. Si comincia dall’ossessione dell’uomo di spingersi sempre più in là nel cosmo, che va di pari passo con la sua arroganza. “Siamo divoratori di mondi”, dirà ad un certo punto McBride, e infatti l’umanità viene ritratta come un virus che si diffonde di pianeta in pianeta, esportando i propri difetti invece di ricominciare e migliorarsi. Così la base lunare non è altro che un enorme centro commerciale, nazioni diverse si fanno la guerra per le risorse del satellite, scienziati avventati compiono esperimenti su animali che si ritorcono contro di loro, e così via.
Ma c’è anche l’ossessione del padre di McBride di scoprire la vita oltre il sistema solare, anche a costo di soffocare un ammutinamento nel sangue. E quella dello stesso protagonista per il lavoro, per il quale ha mandato a rotoli il proprio matrimonio. Gray non manca di inserire qui un accenno di scontro generazionale, raccontando la storia di un figlio che, cresciuto all’ombra di un illustre genitore, passa dall’ammirarlo e seguirne l’esempio al temere di averne ereditato gli aspetti peggiori.
A tal proposito, mi sembra giusto spendere due parole su Brad Pitt. Ho sentito molti lamentarsi del fatto che per tutta la prima metà del film reciti in maniera inespressiva. Evidentemente non hanno capito che era la storia a richiederlo. All’inizio McBride è un uomo completamente impermeabile alle emozioni, vuoi per un lieve autismo vuoi per il trauma della presunta morte del padre (magari entrambi). E se ciò lo rende adatto a svolgere compiti che richiedono tanto sangue freddo, gli impedisce anche di stringere sinceri legami emotivi con le altre persone.
Solo andando lassù verso le stelle, con la possibilità di ritrovare il genitore scomparso che si fa pian piano più concreta, il protagonista inizierà a provare di nuovo qualcosa, riscoprendo alla fine, dinnanzi alla consapevolezza della solitudine dell’uomo nell’universo, l’importanza degli affetti più cari. Ed è in questa parte del film che Pitt dà il meglio di sé, dando vita a una performance intensa e appassionante, con almeno un paio di momenti di forte trasporto emozionale.
Insomma, un’altra grande prova per l’attore americano, che arriva a poche settimane di distanza da quella altrettanto convincente in C’era una volta a… Hollywood. Anche se c’è da dire che Tommy Lee Jones, per quel poco che appare, quasi gli ruba la scena, così come il grande Donald Sutherland.
Naturalmente non possiamo parlare di Ad Astra senza menzionare il suo aspetto migliore, ovvero la messa in scena. A livello puramente visivo, il film di Gray è il più bello dell’anno, senza se e senza ma. La fotografia, curata da Hoyte Van Hoytema (alla sua seconda esperienza nello spazio dopo Interstellar), è splendida e straordinariamente espressiva, con un uso dei colori molto ricercato: tra il rosso-arancio di Marte e il blu di Nettuno, le immagini che sfiorano l’opera d’arte abbondano. Mi offenderei se Ad Astra non ricevesse almeno una nomination agli Oscar in questa categoria.
Stesso dicasi per i meravigliosi effetti speciali, che insieme alle brillanti scenografie contribuiscono a portare sullo schermo una delle più credibili visioni dello spazio (e della sua colonizzazione) mai viste. Promosse anche le evocative e malinconiche musiche di Max Richter e Lorne Balfe.
Se proprio devo trovare una cosa che mi ha fatto storcere il naso, questa è la costante voce fuori campo di McBride. Similmente alla versione cinematografica di Blade Runner, anche qui le vicende sono ammorbate dai monologhi interiori del protagonista, che non sempre sono necessari, anzi il più delle volte disturbano la visione. Spiace inoltre vedere Liv Tyler sprecata in un ruolo così piccolo, al limite del cameo (in tutto il film ha una sola battuta di dialogo).
Ciononostante, Ad Astra rimane una pellicola affascinante, una vera gioia per gli occhi, che non merita tutto l’astio che sta ricevendo. Non sarà perfetto, ma io l’ho apprezzato tanto. Forse non come Gravity e Interstellar, ma già più del sopravvalutato (quello sì) High Life.