
Aladdin: sorpresa, un live-action Disney che non è un completo bidone!
Diciamolo subito: mamma Disney ultimamente non ha brillato per inventiva e trovo la sua mania di trasformare alcuni cartoni sacri in live-action un espediente per far pimpi facili, nonché un segno di stanchezza e mancanza di creatività.
Oltretutto il colosso di Burbank ne sforna uno dopo l’altro, senza darci il tempo di respirare: a marzo Dumbo (ancora non ho superato lo shock), ora Aladdin e ad agosto uscirà la mia bestia nera, Il re leone – ti aspetto al varco, caro Simba in CGI.
Vi chiederete: perché continui ad andare a vederli? Dato che quod me nutrit, me destruit, per dirla con Nietzsche, il mio masochismo congenito mi costringe ad andare al cinema. La Disney, maliarda, sa come far leva sul nostro affetto per i suoi cartoni e noi, povere vittime, siamo pronti ad aprire il portafogli e ad assistere al massacro dei ricordi d’infanzia.
Nello specifico, Aladdin fa parte della mia personale Trinità (insieme a La Bella e la Bestia – grazie Emma Watson per aver assassinato Belle – e a Il re leone) quindi ero particolarmente preoccupata, così come gli amici che mi hanno accompagnato.
Vi anticipo che il mio scetticismo stavolta è stato piacevolmente smentito, pur tra alti e bassi.
La trama di Aladdin è essenzialmente la stessa del cartone, anche se con qualche piccola variazione e con l’aggiunta, più o meno azzeccata, di due nuovi personaggi, ovvero l’ancella di Jasmine, Dalia/Nasim Pedrad e il capitano delle guardie del Sultano, Hakim/Numan Acar.
Il film scorre bene e la regia di Guy Ritchie, per cui di solito nutro delle riserve, funziona e procede con sicurezza. Il risultato sono 128 minuti di pellicola godibili e senza tempi morti, anche se manca quella commozione e quel pathos che il cartone riesce ancora a suscitare dopo ormai ventisette anni.
La tentazione di fare un pedissequo confronto con l’illustre precedente è fortissima ma, sapendo che il classico del ’92 vincerebbe a mani basse – sono conservatrice e me ne vanto -, proviamo a considerare l’Aladdin del 2019 in modo oggettivo, elencandone pregi e difetti.
Dubito ci riuscirò ma le buone intenzioni ci sono, giuro.
PREGI
- Aladdin/Mena Massoud: bello, coraggioso e romantico. Pur non essendo, ahimè, particolarmente espressivo, se la cava bene a saltare da un palazzo all’altro – stile Assassin’s Creed, per capirci -, a rubare gioielli che manco David Copperfield e impersonare il ragazzo di strada furbo ma dal cuore puro. Ci piace.
- La vivida caratterizzazione di Jasmine/Naomi Scott: in questo film, la protagonista non è “un trofeo da vincere“ ma ha una personalità ben definita, determinata a governare, anche da sola, perché studia e conosce bene il suo regno. In realtà sono contraria a questo femminismo forzato che la Disney esibisce da qualche tempo ma è apprezzabile l’attenzione riservata a una principessa che già nel cartone dimostrava un bel caratterino. Però raga, la canzone La mia voce, composta ex novo per Jasmine, ricorda troppo un brano di Emma Marrone.
- I costumi: bellissimi, ricchi, colorati, vistosi. Proprio in stile Mille e una notte. Sono una donna, a questi dettagli ci tengo.
- Il Genio/Will Smith: di solito non lo tollero – non lapidatemi, prego – ma in Aladdin funziona, istrionico, ipercinetico come il ruolo richiede. Lui e Massoud formano un bel binomio, anche visivo.
DIFETTI
- Jafar/Marwan Kenzari: bocciato in toto. Non tanto per l’attore, che non è male, quanto per la resa del personaggio, che è uno dei villain più subdoli e eleganti dell’universo Disney: qui è troppo bello, troppo giovane, troppo isterico. Nessuna raffinatezza, solo occhi sgranati e crisi di nervi che fanno pensare a una fanciulla in sindrome premestruale.
- I testi: questo è un problema specifico del doppiaggio italiano, già notato ne La Bella e La Bestia. Sembra ci sia il bisogno irrefrenabile di cambiare le parole di brani già perfetti, col risultato di sconvolgere non solo la metrica ma anche i fragili equilibri psicologici di chi, come me e i miei amici, mentre si lancia in appassionate interpretazioni, realizza che alcune strofe sono completamente modificate.
- Le trashate: non entro nel dettaglio per non rovinarvi la sorpresa ma ci sono alcuni momenti che vorrebbero essere comici ma risultano solo pacchiani. E inutili.
- Il difetto più grave, secondo il mio (poco) modesto parere: la generalizzata mancanza di commozione. L’Aladdin del 2019 mi ha preso, divertito ma non mi ha emozionato: il giro in tappeto de Il mondo è mio, che è in pratica la mia idea di romanticismo, è ridotto ad una scampagnata fuori le porte di Agrabah, la liberazione del Genio è quasi una prassi contrattuale, Jasmine è più contenta di diventare Sultano che di aver accalappiato il bel ragazzetto. Poco sentimento, poco pathos, niente lacrime. Volevamo piangere come vitelli e invece ci hanno tolto questa soddisfazione.
Dunque, tirando le somme: sono riuscita a essere obiettiva e a non far confronti con il mio adorato Aladdin anni ’90?
Rileggendo tutto… direi di no.