Film

Alice e il sindaco: la sinistra al bivio in una Lione colta e spietata

L’estate di solito è il periodo in cui i bei film scarseggiano, e nel migliore dei casi ci si rifugia nei cinema all’aperto a recuperare qualche uscita invernale. Ma nel 2020, complice un simpatico virus, tutto ciò che avremmo potuto vedere in una fredda sera di febbraio arriva ad allietare le lunghissime, torride notti di giugno. E voi che ancora osate lamentarvi. Tra questi eccellenti ritardi figura anche Alice e il sindaco, film del regista Nicolas Parisier che fa giocare al sindaco di Lione Fabrice Luchini, più che a suo agio nei panni dell’imperatore della città. Sindaco che ormai è un filino annoiato, e sembra aver perso quello slancio per la cosa pubblica e per la democrazia che aveva sempre accompagnato la sua carriera: per questo motivo decide di farsi affiancare da Alice (Anaïs Demoustier), fresca studentessa e insegnante di Oxford con quintali di libri di filosofia alle spalle e poche, confuse idee su cosa vorrebbe fare da grande.

L’intesa tra i due è immediata, così come le meschinità e gli intrighi di palazzo: perché se è vero che le riflessioni della ragazza, scevre da preconcetti e da giochetti di potere sembrano restituire linfa al politico navigato, non tutti vedono di buon occhio l’accoppiata, platonica, s’intende, tra Alice e il sindaco. Dalle bazzecole come la metratura dell’ufficio – e vi sfido a trovare un luogo di lavoro dove questa cosa non è oggetto di dibattito alla macchinetta del caffè –, fino al ruolo crescente di Alice nelle campagne di comunicazione e al suo involontario snobismo nei confronti dei guru del settore, guru che lo stesso sindaco non esita a definire “volgari”, più di un collega cercherà di metterle i bastoni tra le ruote. Dall’ambiziosa responsabile di gabinetto (Léonie Simaga), alla rampante esperta di discorsi (Nora Hamzawi), fino all’ultimo dei galoppini dello staff.

A prima vista, Alice e il sindaco potrebbe sembrare una specie di House of Cards in salsa europea; ma proprio perché nasce nel Vecchio Mondo, in Francia per la precisione, è parecchio più raffinato. E più antipatico. I riferimenti colti e le citazioni si sprecano, così come il dibattito sulla sopravvivenza della sinistra e sul ruolo crescente del sovranismo, un dibattito che negli Stati Uniti anche solo per i toni sarebbe impensabile. Per non parlare poi del discorso finale: per qualcuno potrebbe apparire entusiasmante, per altri ingenuo. Di sicuro è utopistico, come constateranno amaramente i nostri protagonisti.

E per una volta, Luchini non è il più insopportabile dei due: in Alice e il sindaco il personaggio di Alice stravince, e non è neppure adorabilmente fastidiosa quanto il suo alter-ego. Le manca l’avverbio all’inizio, per l’appunto. A metà strada tra l’attivista di belle speranze e la studiosa distante dal popolo, proprio lo stereotipo che condanna ogni giorno, riesce quasi a rendere piacevoli i tramacci che i “cattivi” ordiscono alle sue spalle. La batte solo la moglie del migliore amico (Maud Wyler), sedicente artista con velleità ambientaliste e ben poco senso dell’umorismo. Perché frequentarla? Ma per i soldi, che domande.

Ma non temete: nonostante la ragazza che dà il nome al film non brilli per simpatia, Alice e il sindaco è un gran bel film. Anzi, forse proprio per questo: perché, senza mai dichiararlo apertamente, mette in luce tutti i limiti che la politica in generale e la sinistra in particolare hanno mostrato negli ultimi tempi, perché fa un’ironia mai strillata, ma allo stesso tempo è un ritratto spietato di quel mondo.

E poi c’è lui, Luchini: che da un po’ di tempo a questa parte si diverte a interpretare grossomodo sempre la stessa parte – basti pensare all’altro film francese dell’anno, Il mistero Henry Pick; ma nulla da dire, l’intellettuale spocchioso e un po’ depresso – “non aspettano noi, aspettano me” – gli riesce benissimo. Solo per la sua presenza, e per le sue parole destinate a rimanere tali sul ruolo di cultura e istruzione nella formazione della classe dirigente, Alice e il sindaco vale il prezzo del vostro primo biglietto post pandemia.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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