
Alice nel Paese delle Meraviglie – il tripudio della follia firmato Walt Disney
“C’era una volta un generale di nome Piero che mangiava le scatolette di prugne morte dentro alle casse secche delle papere moribonde che mio padre seppellisce i cani quando mio zio si mangia le balle di cartone nei meandri della pedagogia Pavarotti cane uccello cammelli che ruttano ossimoro tegami di ferro sono Papà Castoro che trita fagioli rotti”.
Signori. Queste parole non vogliono dire nulla, mi pare ovvio. Non c’è un filo conduttore. Ebbene, queste parole potrebbero sicuramente essere la trama di un film che trama in realtà non ha, o meglio, di un film la cui trama è un delirio così assoluto che essa stessa, per propria condizione esistenziale, si annulla autonomamente, divenendo un tripudio di demenza (e di dementi). Sto parlando di un film per squilibrati, un film per malati di mente, per folli, per gonfi, per signori che si legano la cravatta sulle gonadi: sto parlando di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Ebbene, cari amici miei, finalmente ho capito perché sono cresciuto mongoloide. Signori, questo film fa male al cervello. Trasuda follia. Dopo molti anni che non lo vedevo, qualche giorno fa, assieme a un caro amico, ho deciso di apprestarmi a un re-watch. Mai esperienza fu più terribile.
Provo a riassumervi brevemente la trama (o meglio, la folle sequela di personaggi e situazioni che si avvicendano nel corso della storia).
Scena iniziale: una bella figa bionda (Alice) se ne sta svaccata su un praticello assieme a un quadrupede di nome Oreste. A un certo punto appare un coniglio grasso munito di panciotto e orologio da taschino (un classico, direte voi). Il coniglio, grasso, corre furiosamente. La bambina lo segue sino ad un buco che la porta sottoterra. Attraverso un mare di lacrime supera una porta parlante che la conduce in un mondo piuttosto balordo. Quivi, alcuni animali, corrono attorno a uno scoglio capitanati da una sorta di gravida oca chiamata “Capitan Libeccio” (perché, evidentemente, del Libeccio, lui è il capitano).
La bambina, frastornata da cotanta demenza, fugge. Si ritrova così in un bosco. Due buffi omuncoli iniziano a ballettare e a raccontare una storia da squilibrati. Alice scappa via e entra nella casa dello sfuggente coniglio. Ma, all’improvviso, dopo aver mangiato un biscotto trovato all’interno dell’abitazione, probabilmente ketamina, la nostra giovane eroina diviene alta 18 metri e rimane “bloccata” all’interno della casa stessa, cosicché il coniglio si allarma e chiama Capitan Libeccio, la sovracitata oca grassa, che, per caso, passava di lì.

Libeccio, evidentemente figlio di piromani, decide che per far sfuggire il gigantesco mostro (Alice) dalla casa, sarebbe stato opportuno dare fuoco all’abitazione. Tuttavia la tossicodipendente Alice mangia una carota che la fa ritornare alle sue dimensioni originarie. Nell’ordine incontrerà poi: dei fiori che le cantano una canzone – per poi mandarla brutalmente a fare in culo -, un bruco che fuma il narghilè, un uccello squilibrato che la etichetta come “SERPENTEEE”.
Dopo questi incontri si ritrova ad un sorta di ricevimento dove un leprotto e un cappellaio non fanno altro che bere tè e dire minchiate su minchiate. La ragazza, impaurita dall’acuta demenza delle bestie, fugge. In cambio trova un gatto violaceo che gioca a calcio con la sua stessa testa. Poi, attraverso un albero – giuro che succede – entra in un regno dove una regina dal modicissimo peso di quattro quintali prova a decapitarla, ma anche in questo caso riesce a farla franca. Fotogramma successivo: Alice si risveglia in un prato. Era tutto un sogno.
Ce ne rendiamo conto che ci troviamo di fronte a una storia folle, vero? Il suddetto film sconvolge le menti, irretisce i sensi, è chiaro. Alice nel Paese delle Meraviglie (tratto, come tutti sapete, dal grande romanzo di Lewis Carroll Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie del 1865 – da precisare che alcuni sketch e personaggi sono “presi in prestito” anche dal romanzo successivo di Carroll, ovvero Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò), si tratta del tredicesimo “Classico Disney” (mi riferisco alla lista ufficiale resa nota dalla casa di produzione anglo-americana nel 2010). Uscito nelle sale nel 1951, il film fu fortemente voluto da Walt Disney, che da anni progettava di mettere in scena un lungometraggio d’animazione basato sui libri dello scrittore e matematico inglese.

Ma, esattamente, che cos’è Alice nel Paese delle Meraviglie? La verità è che Alice nel Paese delle Meraviglie è un prodotto assolutamente atipico all’interno del panorama disneyano. Anzitutto, Alice, la protagonista, non ha nulla a che vedere con le classiche eroine Disney, tutte – o quasi – sempre contraddistinte da un percorso di formazione, all’interno delle varie narrazioni, che, in un modo o nell’altro, le fa crescere e maturare, rendendole più consapevoli di loro stesse; Alice, invece, non compie alcun tipo di evoluzione: le sue disavventure non seguono una logica razionale. Tutto ciò che le accade è frutto della casualità assoluta. Non ci sono prove da superare, ingiustizie che devono essere sublimate, scrigni da portare in salvo, pianeti da difendere, storie di amori impossibili che riescono miracolosamente ad avverarsi.
In questi 75 minuti animati la fa da padrone soltanto l’irrazionale. La trama (o meglio, la non-trama) si risolve in questa parata di figure dall’alto tasso di demenzialità che sfilano di fronte ad Alice per poi fuggire malamente, non lasciando allo spettatore nemmeno il tempo di ragionare su che cosa esse fossero, su che cosa esse rappresentassero, sul perché si trovassero lì in quel preciso istante.
Ovviamente Carroll non scriveva cose a caso giusto per il piacere di sprecare un po’ di inchiostro. Dietro ad ogni personaggio è chiaro che si cela un rimando alla società e all’epoca (in questo caso, quella vittoriana) durante la quale viveva lo scrittore. Cosicché non è difficile identificare negli sprezzanti fiori una chiara rappresentazione della ferocia della borghesia e delle classi più agiate, brutali ed ingiuste verso i ceti più poveri (mi riferisco alla scena dove Alice, dopo essere stata identificata dai fiori come della comune “erbaccia”, verrà da questi ultimi brutalmente derisa).
E ancora non è compito arduo far coincidere nelle figure del Leprotto Bisestile e del Cappellaio Matto (due accaniti bevitori di tè, la bevanda inglese per eccellenza) un’acuta ridicolizzazzione delle convenzioni e dei modi di fare dei salotti mondani britannici; i dieci minuti di delirio che Alice letteralmente “subisce” al ricevimento di questi due balordi sono palesemente volti a deridere un momento “sacro” per gli inglesi come l’ora del tè, giustapponendo, ai borghesissimi fruitori della tipica bevanda una coppia di cerebrolesi disadattati – il Cappellaio e il Leprotto, appunto, i quali, al posto che discutere di politica economica assaporando l’essenza dell’infuso mentre fumano una pipa a forma di Buckingham Palace, tentano di riparare un orologio spalmandovi sopra burro, senape e marmellata.

Di fronte alla domanda del Brucaliffo (un altro personaggio eccezionale) “Che cosa ti preoccupa”, Alice risponde “Vorrei essere un po’ più grande”. La bambina, persa nelle tortuosità più remote del suo inconscio, compie un viaggio paradossale che testimonia, forse, un tentativo di emancipazione, una ricerca della propria consapevolezza al di fuori del mondo reale. Andando avanti potremmo provare a dare altre interpretazioni sui vari personaggi, ad approfondire tutte le allegorie che si celano dietro agli abitanti del “Paese delle Meraviglie”, ma ritengo opportuno fermarmi qui.
La componente allegorica, infatti, c’è, non ci sono dubbi; ma ciò che nel film la fa padrona, consacrandosi come arma vincente, risulta invece essere l’atmosfera irrequieta, il continuo senso di stordimento commisto al surrealismo delle immagini. Sono proprio questi gli ingredienti atti a sconvolgere Alice – e lo spettatore stesso. Spettatore che, a sua volta, proprio come Alice, non potrà fare a meno di sentirsi soggiogato, frastornato, preso in giro. Come abbiamo già messo più volte in luce, infatti, tutta la vicenda si materializza in un delirio onirico, in un vero e proprio trip allucinogeno che confonde e manda in tilt, frammentandosi in tante piccole sequenze visionarie che non permettono una lettura e un’analisi immediata.
Ecco perché la “ricerca del significato”, correlata al tentativo di dare un volto “reale” ai vari personaggi, risulta una manovra quasi inutile.
Non bisogna dimenticare, infatti, che Alice nel Paese delle Meraviglie nasce, anzitutto, come film d’animazione per bambini; un prodotto, dunque, che non pretende, almeno nell’immediato, una lettura profonda e interpretativa, quanto, piuttosto, il tentativo, fondamentale, di intrattenere. Ed è proprio grazie alla – innegabile – magia Disney e all’elegante freschezza formale attraverso la quale si perpetrano le varie vicende che Alice nel Paese delle Meraviglie assurge a capolavoro dell’animazione. Un capolavoro dell’animazione la cui messa in scena si discosta enormemente da quella di qualsiasi altro classico Disney.
Nessun’altra pellicola della grande casa di produzione anglo-americana è in grado di scatenare un tale senso di squilibrio, imprimendo davanti agli occhi dello spettatore un corteo di personaggi le cui apparizioni, sebbene quasi sfuggenti, risultino talmente intense e disturbanti.
E sono proprio questi personaggi, così paradossalmente “abbozzati”, ma dotati di un impatto visivo (e uditivo) immenso – incredibile come si muovano, i movimenti che compiono sono così esasperati da dare alla testa, giuro, fate caso a come quel fottuto coniglio sbatta le zampe, è diabolico – che fungono da motore dell’azione, da elementi preponderanti per la riuscita del film.

Disney crea un capolavoro senza tempo, una favola tetra, elegante, divertente e delirante, che si rivela manifestamente – e senza il minimo tentativo di nasconderlo – come un racconto proverbialmente psichedelico e allucinogeno, intento a scavare nei meandri più reconditi della mente umana. Non saprei cos’altro dire su ‘sto film per squilibrati, se non che è una settimana che mi riguardo su YouTube la scena dei due matti che bevono il tè: la linguetta che fuoriesce dalla bocca del Cappellaio, le orecchie del Leprotto che roteano armoniosamente fra di loro, gli occhi spiritati, la simbiotica demenza dei due. Signori, queste scene non possono essere dimenticate. Trascendono la realtà terrena per stagliarsi direttamente nel pianeta dei mongoloidi.
Walt Disney era un po’ cattivo, lo sanno tutti che infarciva i suoi film di messaggi subliminali contenenti “cazzi giganteschi” e radiose “tette all’aria”, ma qui ha sorpassato ogni limite; facendo leva sul suo virtuosismo, ci ha semplicemente rincoglioniti tutti. Ed è per questo che lo ringrazio calorosamente.
Ps: prima dell’inserimento del VHS nel lettore è consigliato usufruire della sostanza illecita CANNABIS. La suddetta, se fumata, renderà i vostri neuroni ancora più vogliosi di avventurarsi in questo estatico trip.
Ps (2): consiglio di recuperarsi questo simpatico corto, la cui idea originale risale al 1945, ma che verrà portato a termine soltanto nel 2003. La sceneggiatura primigenia e buona parte dei disegni sono frutto di un’antica collaborazione fra Salvador Dalì e Walt Disney. Posso azzardare che anche qui, a livello di squilibrio surreale, non siamo messi poi così male.
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