La seconda stagione di American Gods è terminata con quello che ci si aspettava: un grosso, pachidermico botto. Dopo sei episodi altalenanti, le ultime due puntate messe in onda hanno di nuovo fatto brillare la produzione Starz anche se complessivamente la serie non è stata all’altezza della precedente. Ma, ma, andiamo con ordine.
Treasure of the Sun, il settimo episodio, è un bel calcio nello stomaco il cui inizio è anche uno spaventoso quanto terrificante easter egg per i lettori che sanno bene cosa significa vedere Sweeney sotto un ponte. E il resto della puntata si gioca proprio lì, tra quello che potrebbe essere successo a Sweeney in passato e quello che potrebbe accadere proprio adesso, prima della guerra.
Quando torna al Cairo, Sweeney cerca immediatamente Wednesday, che nel frattempo è riuscito a dare vita alla lancia Gungnir grazie a un ramo di Yggdrasil: Gungnir, la pistola che dovrà sparare prima della fine della puntata. Tutto l’episodio gioca sui frammenti, come detto prima, dei ricordi di Sweeney, che lentamente raccoglie pezzi del suo passato, di quando era un re. Dialogando con altri personaggi, Bilquis, Salim e Ibis, ricorda finalmente il suo ruolo come governante e come dio, non come semplice leprecauno.
Torna così, ancora una volta, la mutazione genetica delle divinità, ma non solo attraverso l’adattamento ai tempi, più arduo appunto per gli Old Gods, ma anche la loro trasformazione a causa del cambiamento delle civiltà stesse. La religione cristiana trasforma Sweeney da re a creatura folkoristica. Ma non è il solo motivo della pazzia di Sweeney; l’altra metà della storia giace tra le spire di Wednesday che ha banchettato con la sua pazienza e il suo asservimento come sta facendo anche con il Jinn. E, ancora una volta, trasformazione, incroci. Odino ha avuto un equivalente irlandese che ha intrecciato la sua storia con quella di Sweeney, quando questo era ancora Lùg.
La mano di Gaiman si sente in questi frangenti, quando le storie si spostano, collimano e poi si schiantano. Sweeney ha incontrato le banshee prima di entrare nella Funeral Parlor e queste banshee non possono attendere nessun altro se non lui. Nell’ultimo incontro con Wednesday non gli resta che un’arma, svelare i trucchi che l’altro ha messo in atto e togliergli l’unica cosa che adesso lo rende potente.
L’ultimo episodio, invece, Moon Shadow, ha un ritmo sicuramente peggiore anche se la rivelazione finale paga in parte momenti frettolosi e male assortiti.
Dopo che Wednesday fugge, Shadow lentamente comincia a mettere in dubbio tutto quello che ha fatto fino a quel momento. Ma la rabbia e il resto degli intrecci tra i personaggi vengono interrotti dalla mossa di Mr. World che scatena il rinnovato Tech Boy, adesso Quantum Boy (e il suo aspetto lascia a desiderare) gettando nel panico la popolazione. Ma è New Media che muove la pedina successiva, trasformando le notizie e indicando Wednesday, Shadow e Salim come terroristi.
Il resto è una lunga corsa, inframezzata però da New Media appunto, le cui azioni sono abbastanza frettolose e di scarso impatto visivo, e il ritorno di Laura Moon.
La rivelazione finale giunge perfetta e decisiva e riscatta i monconi delle scene precedenti.
Il fatto che Shadow sia figlio di Wednesday aveva stuzzicato certamente la mente dello spettatore, anche se si tratta ancora di una rivelazione confusa e piena di incertezze. La scena finale, con Shadow che scopre il nuovo nome apparso sul suo documento d’identità, vuol dire una sola cosa: Lakeside.
Nel complesso questa seconda stagione è stata buona anche se certo non all’altezza delle aspettative. Credo però che fosse inevitabile un calo, dovuto prima di tutto al fatto che nella prima stagione buona parte degli episodi era giocata sul recruitment delle divinità, il che offriva certamente episodi belli densi e corposi. Inoltre, con lo spostamento della parte di Lakeside a una terza stagione, il che è palese fin dal secondo episodio, questa non poteva essere altro che una stagione di passaggio. Di certo alcune scelte l’hanno resa zoppicante e a tratti noiosa, ma credo che potremmo riservare ancora fiducia in una futura terza stagione. Anche perché è abbastanza chiaro: se si sbaglia Lakeside forse possiamo davvero mollare tutto. Ma, soprattutto, l’altra ottima promessa sono gli indizi disseminati, talvolta bene altre volte meno, in questa terza stagione, che la renderanno probabilmente indispensabile una volta svelate altre carte.