
American Pastoral – McGregor parte complicandosi la vita (ma si salva)
Con American Pastoral abbiamo l’esordio alla regia del Mark di Trainspotting, che prova a riassumere in due ore un’epopea generazionale su carta.
Da un romanzo di Philip Roth
Il primo punto da cui dobbiamo partire per giudicare questo esordio di Ewan McGregor è questo: tratto da un romanzo di Philip Roth. Non proprio una brossura a dire il vero: un bel mattoncino sulle 500 pagine che ripercorre una cinquantina di anni di storia americana, attraverso le vicende di un uomo e della sua famiglia. Letturina leggera leggera da sbocconcellarsi prima di dormire ‘nsomma.
Il pezzo di calcestruzzo in questione è comprensivo di cornice narrativa, trame, sottotrame e moltitudine di personaggi secondari.
Sarà una saga da tre/quattro film da tre ore ciascuno?
No, anzi, è un film piuttosto rapido di due orette.
Sento, infatti, già in lontananza gli ululati sputacchiati dai nerd letterari che colpiscono McGregor con copie di libri di Nicholas Sparks regalate loro a natale dalla zia dicendo “So che ti piace tanto leggere!”.
Vorrei subito fermare l’uso di armi improprie, ribadendo come si debba cercare di giudicare un adattamento non in quanto tale, ma per quello che è di per sé come opera d’arte. Teniamo momentaneamente a bada i nazifilologi, dicendo come lo stesso Philip Roth abbia approvato la pellicola e partiamo con la recensione vera.
Di reunion e mulini bianchi
Il film inizia con la classica cornice letteraria che ormai ci ha un po’ triturato i cojones. Tal Nathan Zuckerman, scrittore di successo, si ritrova ad una reunion dei compagni del liceo. Sì, proprio quelle feste dove non si sa se sono più dure le tartine o i bicchieri di plastica. Si sofferma, per non si sa che motivo, davanti a una bacheca che celebra i successi didattico-sportivi di un ex alunno da lui conosciuto: Seymour Levov, detto lo Svedese.
Il caso vuole che proprio in quel momento il fratello di quest’ultimo, compagno di Zuckerman, si avvicini alla stessa bacheca con fare tragico.
Segue un dialogo che ho trovato giusto una punta forzato. Una cosa del tipo:
- “Che ci fai qui vecchio filibustiere??”
- “Mi fa schifo sta reunion!”
- “Anche a me, ma di tutte le cose che avevo da fare oggi questa sembrava riservare più sorprese” (???)
- “…”
- “Tu che ci fai qui?? Ti ricordi che idolo era tuo fratello?”
- “Ah sì, è morto ieri…”
Parte così un discorsone su come il fratello fosse destinato a grandi cose, fino a che una terribile terribile vicenda gli ha rovinato l’esistenza. Di che cosa va blaterando? Preparatevi a una botta fatale di ottimismo.
Seymour Levov, detto lo Svedese, infatti, aveva tutto dalla vita. Un lavoro perfetto come proprietario di una fabbrica di guanti ereditata dal padre a Newark, dove faceva la parte del capo perfetto amato dai dipendenti, una moglie stupenda che stava dietro alle vacche (anticipazione di come si evolverà il personaggio); una macchina fica, una casa in campagna e una figlia biondissima, levissima e amorevole… troppo amorevole.
La piccola Merry, infatti, un disagino, se vogliamo andare a cercare il pelo nell’uovo, ce lo avrebbe pure: è pesantemente balbuziente.
Non tutto è oro quel che luccica
La vita va avanti, direte voi, ma i genitori vogliono cocciutamente essere la famiglia della Mulino Bianco e consultano vari specialisti. Una psicoterapeuta effettivamente ipotizza come il blocco psicologico che causa la balbuzie sia proprio questo: questi genitori sono davvero troppo perfetti. Lei è effettivamente una roba da sbavo e si è beccata il marito dei sogni: bello, sensibile, ricco, amorevole e integerrimo. Ce n’è abbastanza, quindi, per un bel complesso di Edipo.
La figlia, che cresce bruttarella effettivamente, sviluppa una sorta di ammirazione malsana per il padre e, conseguentemente, una rivalità per la bellissima madre.
La questione diventa impellente quando Merry, rimasta in macchina con il paparino, gli chiede di baciarla come fa con mamma. Inquietudine mia, fatti capanna.
Da questo momento c’è un salto temporale di cinque anni che ci trasporta quando il disagio inizia a degenerare per davvero.
La 16enne Merry è diventata un adolescente con tutti i crismi dell’emarginazione sociale. Balbetta, non è molto attraente e comincia a trovare sfogo del suo tarlo mentale nella politica. Impazza la guerra in Vietnam e la questione razziale è ai massimi storici mediatici.
Merry comincia a protestare furiosamente contro tutta la società americana e tira nel mucchio anche i suoi amorevoli genitori, colpevoli di essere parte del sistema. La madre ovviamente è la principale vittima dei veementi rigurgiti di Merry, che la accusa di essere solo una borghese dalla mente ristretta.
Sembra solo un tutto sommato commovente slancio idealistico adolescenziale, ma la cosa prende rapidamente proporzioni preoccupanti. Merry comincia a tappezzare la camera di poster rivoluzionari, a frequentare compagnie di anarchici e a manifestare.
Nel frattempo impazzano le rivolte degli afroamericani a Newark, in cui viene coinvolta anche la fabbrica di Seymour, nonostante ci sia un’alta percentuale di lavoratori neri.
‘nsomma, comincia ad andare un po’ tutto a bagasce.
Un pugno nello stomaco
Nonostante tutta la merda che gli sta colando addosso, lo svedese ne esce ancora una volta alla grande. Riceve un premio per aver tenuto aperta la fabbrica nonostante le rivolte e si prodiga di trovare una soluzione per la figlia. Per non soffocare i suoi ideali e tenerla più protetta, le propone di provare a portare il suo grido di protesta proprio nella contea natale, in modo da espandere il suo messaggio al di fuori dei centri urbani.
Un’idea sicuramente stimabile, comprensiva ed equilibrata.
Non sembra altrettanto equilibrata Merry che, in tutta risposta, fa esplodere l’ufficio postale e sparisce.
“papà, papà guarda che so fare – booooom – ora giochiamo a nascondino??”
Ora, se pensate che vi stia rovinando il film, vi sbagliate, perché è questa la vera trama. Il film continua esplorando la frustrazione psicologica e fisica della disperata ricerca della figlia, rivelatasi efferata terrorista. I genitori si ritrovano nell’amletico dubbio di decidere se collaborare con l’FBI, assicurando però al sangue del proprio sangue una vita in gattabuia, o se trovarla con le proprie forze, compromettendo la propria sanità fisica e psicologica.
Un film che… funziona
La pellicola scava con prepotenza e senza tanti giri di parole quanto un evento del genere può far crollare una vita faticosamente costruita con tutte le migliori intenzioni e i migliori valori.
Un pessimistico racconto che, attraverso immagini forte e dirette, trova il modo di colpire l’immaginario.
Il film non è un capolavoro e farà storcere il naso a molti puristi per lo spezzettamento della storia, che forse soffre i salti temporali frettolosi, necessari a riassumere la vicenda in due ore.
A livello cinematografico è da premiare la scelta di accettare una minor fedeltà alla storia originale, in favore di una resa approfondita dei momenti più forti della vicenda, in modo da trasmettere in modo chiaro il messaggio di fondo.
Il decadimento di un uomo valoroso che, nonostante il suo impegno, vede crollare tutte le sue certezze per colpa delle circostanze e del complesso panorama americano della seconda metà del ‘900.
Un dissiparsi delle illusioni che riesce a farci riflettere.