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Apologia di Rocky

Nelle scorse settimane la principale pay-tv italiana ha dedicato un canale alla saga di Rocky. L’operazione fungeva da avvicinamento alla serata della prima tv dell’ultimo capitolo, dedicato al figlio di Apollo Creed. Occasione propizia per maratonare i numerosi film con protagonista lo Stallone Italiano e scriverci un po’ su.

Il mio obiettivo è quello di ripulire l’immagine di Rocky da alcuni stereotipi che ritengo in parte ingiusti. Ormai la saga è prevalentemente vista come un susseguirsi di  incontri di boxe ai limiti della parodia, durante i quali Rocky si comporta più come un punching ball che come un pugile. Gli arbitri si dimenticano dell’esistenza del KO tecnico nel regolamento e il nostro eroe viene malmenato per quindici riprese. In zona Cesarini Rocky si riprende e con qualche pugno ben assestato ribalta l’esito del match. È un trionfo. Ma, detta così, sembrerebbe anche un’americanata inguardabile.

Intendiamoci, tutte le cose che ho elencato sopra sono vere. La massiccia dose di sospensione dell’incredulità richiesta da una saga che dovrebbe essere realistica è uno dei difetti più grandi dei vari film. Ma c’è un elemento che tiene in piedi tutto, a mio avviso. Un elemento che evita che tutto vada in vacca: la grandezza di Rocky Balboa come personaggio e la sua tragicità in particolare. Prima di spiegarvi in dettaglio quello che intendo dire, voglio spendere due righe su Rocky IV. Il film che più ha inciso negativamente sulla “reputazione” della saga, a mio parere.

IL PROBLEMA ROCKY IV

Rocky difende l'onore del blocco occidentale
Rocky difende l’onore del blocco occidentale

Per me Rocky IV è il peggior capitolo della storia dello Stallone Italiano. Peggio anche del quinto film. Quest’ultimo è semplicemente brutto, con una trama zoppicante e un finale sopra le righe. Ma il quarto capitolo incarna tutti gli aspetti deteriori della serie Rocky. Inverosimili scazzottate a guardia bassa, infarcite da ancora più inverosimili ribaltamenti di fronte. Il tutto condito da stucchevole retorica. La scena del Politburo al completo che si alza e applaude Rocky popola ancora i miei incubi.

Il film poteva avere senso nel preciso momento storico in cui è stato pensato e girato. Diventa però inguardabile se estrapolato da quel contesto. Il personaggio di Rocky è l’eroe senza macchia, pronto a dare battaglia nel nome dell’Occidente. Simbolo degli Stati Uniti e della lotta all’URSS, il personaggio snatura sé stesso. Quando va a Mosca a vendicare Apollo si prende le prime pagine, diventa una stella. Proprio lui che è da sempre uno che dà il meglio nelle retrovie. Per fortuna abbiamo altri sei film per apprezzarne la vera essenza.

IL ROCKY CHE CI PIACE

Rocky è un outsider. Vive alla giornata alla periferia di Philadelphia, riscuotendo crediti per un mafiosetto locale. Cerca di rimorchiare Adriana con le peggio barzellette, che nemmeno i vecchietti nei peggiori bar della stazione. Si trascina dietro il fratello di lei, Paulie, un maneggione inaffidabile. Spesso è costretto a sistemarne i casini. Nel frattempo, arrotonda con qualche incontro di boxe di poco conto. Un bel giorno ha l’occasione della vita e può affrontare il grande campione Apollo Creed, deciso a concedere a uno sconosciuto l’opportunità di battersi per il titolo.

Rocky accetta la sfida, ma in realtà non ha sogni di gloria. Non vuole dimostrare nulla a nessuno, se non a sé stesso e, al limite, alla futura moglie. Una volta vinta la sua battaglia personale, una volta superate le quindici riprese, nulla ha più importanza. Rocky si disinteressa dell’intervista a fine match, non gli importa della ribalta. Alla fin fine nemmeno capisce il perché quei giornalisti vorrebbero parlargli. Lui è solo un italiano di Philadelphia che sa leggere a malapena.

Anche una volta battuto Creed e conquistato il titolo (nel secondo film), Rocky rimane uguale a sé stesso. L’ascesa sociale è solo temporanea, effimera. Il pugile si trova spesso a dover ricominciare da zero, quasi si trattasse di destino. Il cognato Paulie gli brucia tutti i guadagni ottenuti dalla boxe con investimenti scellerati. Il suo allenatore gli sbatte in faccia il fatto di aver organizzato difese del titolo contro avversari abbordabili perché Rocky è un pugile mediocre.

Eppure Balboa ha la forza incredibile di non scomporsi mai. Di non abbandonare le persone che gli sono state accanto e lo hanno formato agli inizi. Anche quando queste lo tradiscono, nel loro piccolo. Si tratta solo di affrontare un’altra sfida. Come se fosse il primo incontro con Apollo, come se non fosse cambiato nulla. Rocky va al tappeto ma si rialza sempre, anche nella vita. Sarà forse retorica insopportabile, per qualcuno. Ma poche volte la tenacia è stata rappresentata, al cinema, in modo tanto credibile.

Queste caratteristiche rendono Balboa un personaggio tragico, capace di far commuovere nonostante l’apparenza fracassona di qualche capitolo della saga. E qui mi fermo un attimo, ché bisogna dare un po’ di meriti a Sly.

Stallone viene spesso bistrattato dalla critica, ma è l’attore perfetto per Rocky. Avrà anche una sola espressione nel suo repertorio ma è la sola che serve al suo personaggio. E, in realtà, dietro quell’unica espressione, riusciamo a leggere emozioni diverse, con una punta di disincanto che non sparisce mai. Disincanto che cresce con l’avanzare dell’età, quando Rocky è sempre più stanco di dover sempre dimostrare qualcosa. Stanco, sì, ma mai disposto ad arrendersi. Neppure negli ultimi capitoli, che avrebbero potuto scadere nella parodia con facilità ma sono retti in maniera decente dal carisma del protagonista.

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Insomma, forse avete intuito che apprezzo il personaggio di Balboa, anche più dei film nel loro complesso. Spero di essere riuscito a farvi capire cosa mi ha conquistato del personaggio e perché lo ritenga in grado di salvare – da solo –  una saga ricca di robe improbabili, al limite del comico.

Oltre a quanto ho già detto, Rocky è anche un campione positivo e mai sopra le righe nel suo sport. Un esempio credibile per chi voglia realmente avvicinarsi all’agonismo. Per tutti questi motivi mi sono sentito di innalzare questo inno a un mito della mia adolescenza e non solo!

E voi, che ne pensate? Fatemelo sapere sulla pagina Facebook del Macguffin!

Mattia Carrea

Nato nel 1988, passa buona parte dei suoi 28 anni a seguire le più grandi nerdate mai prodotte nella storia del cinema e della televisione. Difficilmente scriverà di grandi film d'autore, siete avvisati!
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