
Arrival – La fantascienza intimista che spacca lo schermo
Sapete una cosa? Quando inizi ad affezionarti ad un regista emergente (anche se ormai non più tale) ti prendi un grande rischio. Perché se ami il suo tocco, le sue storie e, soprattutto, il suo modo di raccontarle, allora ti aspetti sempre che quella successiva sia più bella della precedente. Ditemi voi se non c’è la paura di finire con il culo per terra. È successo a qualcuno con Sherlock, ad esempio, ed è iniziato a succedere con Denis Villeneuve quando è stato annunciato alla regia di Blade Runner 2049. Poi è arrivato Arrival (oh oh come sono simpatico), e davanti al cineasta canadese bisogna solamente alzarsi e applaudire, non c’è altro da fare.
Vediamo di fare ordine, che poi mi perdo e non è il caso. Avrete già visto il mio voto, quindi è inutile stare a cincischiare ancora: Arrival è un capolavoro. Ma di quelli da far vedere anche a gente come mia mamma che “no la fantascienza no, che schifo, non è il mio genere, Luke Skywalker è quello con la bacchetta magica?” (semicit.).
Perciò vi avverto subito: ne voglio parlare approfonditamente (per quanto possibile). Se non avete ancora visto il film correte a farlo, e se poi vi va di tornare a leggere la recensione farete di me un bimbo felice. Non come Bill davanti a una stagista, ma siamo lì dai. Perché da adesso in poi ci saranno SPOILERZ GIGA MEGA su Arrival, siete ampiamente avvertiti. Tutti gli altri con me.
Da cosa partire per descrivere la bellezza di questa pellicola? Direi dalla gestione dei tempi diegetici (eh, avete visto? Diegetici, sono un critico vero, so le parole di cinema). Ora la smetto, scusate. Dicevo, tutta la costruzione tempistica dell’incontro con gli alieni è spettacolare. Come una marea che monta lentamente, ma in maniera inesorabile. Villeneuve riesce a centellinare gli spazi drammatici per farci salire una carogna pazzesca, per costringerci psicologicamente a voler vedere queste creature. Perché chi di dovere le ha già viste, e ha pure iniziato ad analizzarle. Ma siamo noi che dobbiamo ammirarle, siamo noi con la dottoressa Louise Banks (Amy Adams) e con il dottor Ian Donnelly (Jeremy Renner) a voler essere presenti. E come loro siamo presi da paura ed eccitazione, da ansia e curiosità. I due studiosi rappresentano tutti noi, e l’immedesimazione è totale.
Cioè, per capirci, avessi avuto Margot Robbie che si spogliava davanti a me l’avrei spostata in malo modo perché levati che devo vedere ‘sti cavolo di alieni.
E poi arrivano. Ma anche qui Villeneuve, con un tocco da vero prestigiatore, ce li fa vedere in mezzo al fumo, seminascosti, non ce li spiattella banalmente in faccia. Anche se per un attimo pensavo fossero parenti di Cthulhu (o dei ragni giganti di Enemy, altra perla del regista). Ma Arrival è fatto di contrasti, perciò gli alieni che sulla carta possono sembrare i soliti mangiauomini vogliono in realtà aiutarci. Vogliono aiutarci? Non si capisce mai davvero. In linea di massima sembrerebbe un arrivo pacifico, ma il pubblico di genere sa che raramente accade. Il rapporto tra umani e alieni è il fulcro del film, perfettamente reso da una Amy Adams magnificamente calata nella parte.
Ed è qui che Villeneuve sfodera tutto il suo realismo fantascientifico. Perché Arrival è tremendamente plausibile. Le reazioni del mondo sono esattamente quelle che ci aspetteremmo, dalla guerra alla comprensione e, soprattutto, dall’incomunicabilità tra nazioni. Come già aveva fatto Zemeckis in Contact (film magnifico a cui Arrival deve tantissimo), Villeneuve riesce a tratteggiare un quadro fatto di luci e ombre, dove i protagonisti danzano sull’orlo del baratro, spesso e volentieri senza nemmeno rendersene conto.
Eppure da parte dell’altro, del diverso, c’è pazienza e voglia di capirsi. Gli Eptapodi alieni ci dicono già tutto quello che dobbiamo sapere: bisogna comprendere il cerchio, e quindi chiuderlo, per salvarci tutti. E non c’è bisogno di spiegare il motivo per cui loro avranno bisogno dell’umanità fra tremila anni, perché il problema è qui e ora.
Perciò Villeneuve decide di confermarsi uno dei più grandi registi contemporanei e ci frega tutti: falsi flashback che sono flashforward, ma che in realtà sono parte di un concetto di tempo altro rispetto al nostro. Un concetto di tempo che Louise apprende dagli Eptapodi e che le cambia completamente la vita. I salti temporali servono però per chiudere il cerchio, così come Hannah, la figlia palindroma di Louise e Ian, che è contemporaneamente viva e morta, apparentemente costretta a venire al mondo perché tutto è collegato, tutto deve andare come Louise ha visto. E non ditemi che il nome è stato scelto a caso, dato che Hanna e Barbera hanno inventato Tom e Jerry.
“Devi chiederlo a tuo padre, è lui lo scienziato”. Proprio quando iniziavo a storcere il naso, perché ok le è morta la figlia di cancro, l’abbiamo capito, basta rimarcare la cosa, ecco che Arrival ti spacca il cuore a metà con una rivelazione che, umanamente parlando, è da levarsi il cappello, darlo a Villeneuve dirgli “ok, fai pure il sequel di 2001, Il Padrino 4, e Blade Runner che… ah, già, quello lo fai davvero”.
Piccolo inciso. La fotografia del sequel di Ridley Scott la cura Roger Deakins, lo stesso di Prisoners e Sicario, mentre alla colonna sonora c’è quel genio di Jóhan Jóhannsson, anche lui già all’opera in Prisoners, Sicario e lo stesso Arrival. Una musica potente, che ti coinvolge senza mai lasciarti, che sobbolle sotto la superficie per erompere poi nelle scene di massima tensione. Un po’ come ha fatto Dolan in Mommy nel suo faux ending.
Ve lo immaginate voi Blade Runner 2049 come una fusione di Arrival e Sicario? Io ho sinceramente una scimmia pazzesca. Pure tanta paura eh, anche se sta stranamente passando.
Ma torniamo al film.
Perché dalla rivelazione in poi, graduale, suggerita da piccole frasi e inquadrature, è tutto un rimbalzare, un lasciarsi trasportare dallo scorrere alterato del tempo. Una storia personale che si fonde alla perfezione con il destino del mondo, anzi, sovrastandolo nella sua disumana conclusione. Ma è inutile ripeterlo, e qui più che mai, perché Rust Cohle ci aveva visto giusto tempo fa: time is a flat circle.
Arrival fa riflettere sulle implicazioni umane del contatto alieno, sui rischi della non comprensione delle parole, mai come oggi pregne e dense di significato (Zootropolis docet). Ce lo diceva già Fredric Brown nel 1954, con il suo stupendo racconto La sentinella, e Arrival si pone su quella scia, ma superandola in un finale non così positivo come può sembrare. Perché se davvero gli Eptapodi hanno bisogno del nostro aiuto, allora anche se il solito pirla esaltato iuessei!!1! rischia di mandare tutto a bagashe, loro comunque tenteranno di mantenere inalterato il rapporto, così come poi hanno fatto.

Comprensione di una popolazione diversa o semplice pragmatismo? Io propenderei più per la seconda, anche se il “dono/arma” che loro ci fanno resta comunque per essere utilizzato in una miriade di occasioni che non potrei nemmeno concepire.
Quindi meglio vivere la gioia di una figlia per poco tempo sapendo di non poterla crescere, o decidere di non metterla nemmeno al mondo?
Louise ha compiuto la sua scelta, con il cuore livido, ricolmo di una terribile felicità.
E voi cosa avreste fatto?