Serie TV

Atypical, parlare seriamente e divertire: si può

Alcune produzioni originali Netflix come Atypical mettono di fronte a una domanda: si può creare un prodotto valido che parli di problemi seri?

Thirteen Reasons Why, To The Bone e Atypical. Sono solo tre dei titoli firmati Netflix che trattano problematiche contemporanee piuttosto delicate e rilevanti. Personalmente, di fronte alle loro sinossi, mi sono chiesta se fosse possibile superare i numerosi ostacoli che un lavoro del genere pone: l’eccessiva drammaticità, l’infinita serie di stereotipi, la difficoltà ad empatizzare, le banalità, la mancanza di elasticità nei focus…

Poi, due settimane fa, ho iniziato Atypical. Otto episodi di circa mezz’ora ciascuno, finiti la sera stessa senza rendermene conto, dopo un periodo in cui la difficoltà a trovare una serie che mi prendesse era la stessa di trovare un uomo che mi sopportasse. Beh, a quel punto la risposta alla mia domanda era una sola: si può eccome.

Scampato pericolo

Atypical racconta la vita di un ragazzo, Sam, a cui è stato diagnosticato un Disturbo dello Spettro dell’Autismo, e di tutte le difficoltà di cui egli risente nel tentativo di inserirsi nelle abitudini della sua generazione. Fin qui, come si diceva, la serie sembrerebbe proprio abbracciare tutte le forme di banalità possibili. L’impressione però dura davvero pochi istanti.

Sì, perché Atypical prima di tutto spicca per una dote pazzesca di realizzazione: non solo si empatizza, ma lo si fa con tutti. Certo, il protagonista è Sam ed è certamente lui il personaggio che riusciamo maggiormente a comprendere, anche grazie alla presenza quasi costante della sua voce fuori campo che ci descrive i suoi ragionamenti, le sue reazioni alle emozioni.

La serie però non cade nel pericoloso rischio di martirizzare il protagonista, rendendolo così diverso da avere l’effetto inverso da quello prefissatosi. No, nel corso degli episodi ci mette di fronte alle sue difficoltà e così a quelle di chi gli sta intorno. Per questo motivo noi solidarizziamo con Sam, comprendendo quanto sia difficile capire le emozioni e razionalizzarle, ma solidarizziamo anche con la sua famiglia (dove abbiamo una Jennifer Jason Leigh come madre, dunque non male anche il cast), con la sua psicologa, gli amici, le ragazze che vi hanno a che fare.

Atypical

E ci sono due “in più”!

1: Le emozioni, gran casino

Atypical ci mette di fronte alle difficoltà che un disturbo come quello di Sam può creare, a chi lo ha e a chi lo subisce di rimando. Però fa un passo oltre: ci mostra come questo porti il protagonista a essere incredibilmente – eccessivamente – trasparente circa i propri sentimenti, e come questo a volte lo porti a risolvere in fretta situazioni che per gli altri personaggi diventano molto più aggrovigliate, a causa del continuo girarci intorno. Al tempo stesso, il problema di Sam è spesso quello di voler trovare uno schema nelle emozioni umane, sulle quali prende appunti chiedendo informazioni a persone diverse, quasi fosse una ricerca scientifica. Insomma, la serie trova un modo più che originale di porre in evidenza come noi esseri umani ci si incasini a suon di seghe mentali o eccesso di razionalizzazione. Che fa sempre bene sentirselo dire.

2: Ridiamoci su!

L’idea di inserire Sam in contesti nei quali la sua trasparenza o razionalizzazione facciano sì riflettere, ma spesso scatenino inconvenienti e casini cosmici, genera ilarità e talvolta anche imbarazzo. Questo è però un altro enorme punto di forza della serie, perché le impedisce di risultare una specie di pubblicità progresso. L’esito è tale da riuscire a farci ridere persino nel momento più tragico della serie, in un momento in cui Sam ha una crisi e riesce a far stare male due persone intorno a lui senza volerlo. Non voglio spoilerarvi, ma suppongo si possa cogliere la difficoltà di ridere in una situazione del genere. Ebbene, loro ce la fanno.

Atypical
Beh, magari con un sorriso più gradevole di questo.

Insomma, Atypical riesce nel difficile intento di parlare di un tema troppo poco discusso. Ma riesce anche nel farlo in un modo poco utilizzato, con espedienti poco frequenti ed equilibri tra tenerezza, ilarità e tristezza di difficile realizzazione, suggerendo che il titolo non sia tanto riferito all’atipico protagonista, ma all’atipicità, tutta positiva, del prodotto in sé.

Gaia Cultrone

1994, ma nessuno ci crede e ancora bersi una birra è complicato. Cinema, libri, videogiochi e soprattutto cartoni animati sono nella mia vita da prima che me ne possa rendere conto, sono stata fregata. Non ho ancora deciso se sembro più stupida di quello che sono, o più furba; pare però che il cinema mi renda, quantomeno, sveglia. Ah, non so fare battute simpatiche.
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