
Bad Hair: se bella, e liscia, e ricca, vuoi apparire, un poco devi soffrire
Possiamo raccontarci che, dietro la verve un po’ comica e un po’ orrida, Bad Hair sia un film che denuncia un certo tipo di estetica, che mette alla berlina la questione razziale e quella femminile, che insomma dietro il glitter ci sia una specie di denuncia sociale. Oppure possiamo rilassarci, dotarci delle schifezze mangerecce che vanno a braccetto con queste cose, e goderci gli Anni Ottanta, Los Angeles e le spalline oversize.
Già: perché Bad Hair, ideato, prodotto e girato da Justin Simien, presentato al Sundance Film Festival del 2020 e strategicamente distribuito in streaming da Hulu alla fine di ottobre, è ambientato nel 1989, negli immaginari studi televisivi di una rete che tanto ricorda la mai abbastanza compianta MTV, ma dal sapore più coloured. Anna (Elle Lorraine) è una stagista con delle ambizioni e pure delle idee, ma non ha mai avuto la possibilità di spiccare il volo; almeno fino all’arrivo di Zora (Vanessa Williams), nuova, elegantissima e rampante produttrice, che vede in lei un potenziale. Piccolo particolare: Zora e tutto il suo entourage sono neri, requisito imprescindibile per lavorare da Culture, pardon, Cult che fa più gggiòvane, ma hanno delle meravigliose, lucide, liscissime chiome. Niente treccine, niente rasta, niente afro selvaggi: in pratica, una piccola sfilata di aspiranti Naomi Campbell, sia per estetica che per piacevolezza.
Negli studi è subito scontro, ma Anna decide che è arrivato il suo momento: preso il coraggio e i risparmi a due mani si catapulta nel salone di bellezza più trendy della città, gestito da un’impagabile Laverne Cox che dopo OITNB ci ha preso gusto a giocare alla parrucchiera, e si sottopone a una tortura fatta di forcine, aghi ed extension. Dopo svariate ore e un paio di svenimenti, ecco la magia: sulla testa di Anna c’è una parrucca permanente nerissima e fluente. Un po’ dolorosa, certo, ma come si dice, se bella vuoi apparire…
La sua carriera decolla, ma si moltiplicano anche avvenimenti non troppo ortodossi: perché a quanto pare quei Bad Hair sono dotati di vita propria, e sono affamati. Di sangue. Un’arma che a prima vista potrebbe anche sembrare utile, ma che con il passare del tempo rischia di prendere il sopravvento sulla testa che lo ospita.
Bad Hair vorrebbe tanto avere delle velleità impegnate; ma la verità è che gli riesce molto meglio intrattenere, spaventare (moderatamente), e divertire (parecchio). Perché ammettiamolo: di fronte a questa storia, la prima reazione non è un anelito di inclusività, ma una grassa risata, soprattutto per noi ragazze, che per quanto ce la raccontiamo continueremo a sottoporci ai trattamenti estetici più improbabili – che sia versarsi degli acidi in testa, spalmarsi dell’argilla in faccia o inzaccherarsi le unghie di gel. E sapete perché? Perché tra i primi reperti preistorici sono stati trovati pettini e gioielli. Più chiaro di così. Aggiungiamo che in questo film il massimo della black culture è chiamarsi “sistah” fra colleghe, e capiamo che Bad Hair non è esattamente un manifesto pungente per il movimento BLM.
Però è un ottimo film, e di questi tempi non c’è cosa migliore: a metà fra Denti e La piccola bottega degli orrori, vi regalerà una serata di puro piacere. Io, nel frattempo, ringrazio di essere nata liscia e di essermi convertita al caschetto.