
Beetlejuice: ci sono Tim Burton, un fantasma e un ufficio postale …
Rimpiango il secolo breve, e più precisamente gli Anni Novanta, per una lunga serie di motivi, molti dei quali ascrivibili al fatto che ero lontana non dico dall’età adulta, ma pure dalla pubertà: sostanzialmente nessun problema, quindi, a parte il dover accaparrarmi per prima il telecomando, ché Netflix era di là da venire, e potermi così godere i miei film preferiti. Beetlejuice, tanto per dirne uno, uscito nel 1988 e passato sul piccolo schermo con una frequenza pari solo a Domenica In. Ah, altro motivo per cui rimpiango quell’epoca dorata: Tim Burton allora era ancora capace di fare film. E che film.
Mix di horror, grottesco e commedia come solo lui sa(peva) fare, Beetlejuice si apre con gli adorabili coniugi Maitland, al secolo Alec Baldwin e Geena Davis, intenti in piccole faccende domestiche. Non hanno figli, ne vorrebbero ma tutto sommato va bene così. Di ritorno dal ferramenta – Adam si diletta di plastici che manco Bruno Vespa –, ecco il fattaccio: un incidente più ridicolo che tragico, ma i nostri ci restano secchi. Per qualche strana ragione, anziché passare serenamente nell’aldilà, i Maitland rimangono ancorati alla casa, pena deserti psichedelici e serpentoni di stoffa che più à la Burton non si può se tentano di andarsene. E già così avrebbero di che lamentarsi.
Ma, ciliegina sulla torta, ad invadere la loro casetta in campagna arrivano i Deetz, perfetto stereotipo della coppia newyorkese annoiata e in cerca del senso della vita: lui (Jeffrey Jones) manager esaurito e in cerca di pace, lei (Catherine O’Hara, altra icona indiscussa degli Anni Novanta) sedicente artista, ma soprattutto ricca e viziata signora dei quartieri alti. Meno male che c’è la piccola Lydia, una Winona Ryder appena adolescente, naturalmente in lotta con i genitori, naturalmente con qualche piccola tendenza suicida, naturalmente sempre vestita di nero, naturalmente l’unica in grado di accorgersi di Adam e Barbara Maitland. A poco valgono i tentativi degli ex proprietari di cacciare gli inopportuni ospiti; ormai disperati, decidono con riluttanza di affidarsi a Beetlejuice, uno spiritello malvagio e goliardico relegato dalle autorità dell’aldilà negli abissi, ma che se evocato per tre volte di seguito compare, e con effetti devastanti. Ah: Beetlejuice ha le fattezze di Michael Keaton, che deve essersi divertito non poco.
Meno malinconico di Edward Mani di Forbice, meno sorprendente di Nightmare Before Christmas, Beetlejuice è soprattutto una commedia, dark ma neppure troppo; gli spaventi sono pochi, le risate parecchie, e meritatissime. Al suo secondo film, Tim Burton mette in scena tutto ciò che diventerà il suo marchio di fabbrica: ragazze diafane, cattivi imbolsiti, pupazzi scheletrici dagli occhi immensi, mostriciattoli colorati, e un accenno di stop-motion.
Tra i numerosi momenti memorabili spicca quella che sembra una coda alle poste, però all’altro mondo, con cassiere annoiate, cadaveri improbabili e uffici senza scopo apparenti, e una cena che si trasforma in un concerto, come dire, involontario. Tra suicidi che per la legge del contrappasso si reincarnano in impiegati statali, manuali da perfetto fantasma e sculture da film dell’orrore, Beetlejuice è ormai un classico: dell’horror, del gotico, della comicità, degli Anni Novanta. Tim Burton ha più volte annunciato un seguito, ad oggi mai realizzato; se mai sarà, allora sì che ci sarà da tremare sul serio.