Credo sia arcinoto tra il pubblico cinefilo il nome di Ingmar Bergman, uno dei (se non IL) migliori registi di tutti i tempi. Bene, l’opera di Bergman è immensa e sconfinata, ricca di temi, spunti, approfondimenti e invenzioni, ma il nucleo tematico dello svedese resta sempre il medesimo: indagare l’essere umano.
Questo non significa che Bergman sia un agente dell’FBI o un’app di tracking del Coronavirus sotto mentite spoglie. Questo significa, invece, che attraverso la sua filmografia il regista si pone continuamente domande sull’uomo, sulla sua natura, sul rapporto con gli altri, su Dio.
Semplificando parecchio possiamo asciugare il suo nucleo tematico e circoscriverlo attorno ai tre film di cui andremo a trattare oggi: Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963) e Il silenzio (1963). La scelta deriva dal fatto che, fin dalla loro ideazione, queste pellicole sono state raggruppate da critici e giornalisti in una trilogia, denominata “del silenzio di Dio“. I cinefili più agguerriti e aristocratici staranno sbuffando fumo verde dalle narici: lo so che è una paraculata, ma veniamoci incontro; e ora vi spiego anche perché.

Eterogeneità
Le tre opere sono profondamente diverse l’una dall’altra, ed è questo il primo elemento che rende riluttanti all’idea di “rinchiuderle” in una trilogia. In aggiunta poi mettici il fatto che le suddette non sono legate da nessun tipo di continuità temporale, né dal ricorrere di personaggi, né da elementi di ripresa tra un film e l’altro. Infine, mentre per le prime due pellicole si può parlare di una sostanzialmente omogeneità tematica, la terza sembra distaccarsi nettamente dalla poetica delle due che la precedono. SEMBRA.
Perché Dio?
L’unico elemento che pare accomunare tutto il trio è proprio l’indagine su Dio. EGGRAZZIEARCAZZO! Però attenzione: Dio non va inteso come la divinità cristiana/ebraica/musulmana/cinese/indù/vattelappesca. Con Dio qui intendiamo quell’entità (in senso più generale possibile) nel quale riporre la nostra fede (da intendere come “fiducia, speranza”).
Ed è proprio qui che sta la spaccatura tra Come in uno specchio e Luci d’inverno rispetto a Il silenzio: i primi due parlano di Dio (Luci d’inverno in modo esplicito e diretto e riferendosi proprio al concetto di divinità), mentre il terzo apparentemente no.
Il silenzio
Il punto di giuntura lo ritroviamo proprio nel titolo dell’ultima delle tre opere. E grazie ar cazzo di nuovo, ci sarà un motivo se è la “trilogia del silenzio di Dio”. Ma anche qui il legame tematico sfugge se non si capisce da che punto di vista osservare la trattazione di questo tema. Senza contare che lo stesso Bergman ha sempre considerato quest’appellativo come un epiteto di cortesia, per facilitarne la fruizione e il riconoscimento degli intenti, seppur tuttavia sapeva quanto i tre film fossero tra loro indipendenti. Bisogna quindi interpretare l’idea di Bergman di costruire una trilogia su questo tema come un’esigenza pressante sentita dal regista, come un argomento che necessitava più di un film per essere sviscerato nella sua totalità.
Ma anche questo è parzialmente falso, dato che lo svedese si dedica a questo tema (o ad altri strettamente correlati) sostanzialmente per tutta la sua filmografia. Ed è per questo che più su dicevo che possiamo asciugarne l’opera e la poetica in questa trilogia: perché è come se fungesse da sommatoria in cui confluiscono le esigenze più pressanti del maestro. So anch’io che questo significa sacrificare capolavori immortali come Il settimo sigillo, La fontana della vergine, Persona e fermiamoci qui perché altrimenti dovrei citare oltre 40 film: ahimè una monografia su Bergman è incontenibile in un articolo.
Ricapitolando: la chiave tematica della trilogia sta in questo silenzio, manifestato da un Dio nell’accezione precedentemente esposta e quindi – parafrasando – questo si traduce in quel vuoto esistenziale così tipico e caratteristico dell’età contemporanea.
Le premesse non sono delle più rassicuranti ma vedrete che ci divertiremo.
Il vuoto
Tutti i personaggi della trilogia soffrono di una mancanza: chi d’amore, chi di prospettive, chi di fiducia. In Come in uno specchio e Luci d’inverno questa mancanza è palese ed enfatizzata (soprattutto nel secondo dei due), mentre ne Il silenzio potremmo dire che è “sessualizzata”, ma chiariremo più avanti. Tutti i protagonisti sono quindi pericolosamente esposti a un vuoto che non riescono a comprendere e che cercano di ricondurre a delle assenze più o meno materiali: la mancanza di ispirazione artistica in Come in uno specchio, la morte della moglie in Luci d’inverno, la mancanza di empatia (e comunicazione) ne Il silenzio.
Col procedere delle narrazioni questo vuoto si fa via via più pressante e soffocante, e uno dopo l’altro i personaggi capiscono che non è dato da nessuna circostanza esteriore. Diciamolo meglio. Ci può anche essere una causa esteriore – e anzi, c’è sempre, ma è solo il cosiddetto “campanello d’allarme” -, tuttavia quello che i personaggi capiscono successivamente è che quell’angoscia, quel peso sul petto che sentono è dato da un vuoto estremamente più viscerale di quello che avevano pensato.
Ed è a questo punto che guardano in faccia all’abisso e si scoprono disperati. Ma soprattutto senza nulla a cui aggrapparsi, il che rende ogni tentativo vano. Questo, secondo Bergman, è lo sgomento che l’essere umano prova quando viene posto di fronte alla morte.
Il silenzio di Dio
Il vuoto si genera perché i personaggi non hanno più qualcosa in cui credere. Non ce l’hanno più perché Dio non risponde. Detta così sembra o una grossa ammissione di ateismo e di conseguenza blasfemia religiosa (quanto si incazzano i cattolici quando gli dici che Dio non gli risponderà) o una contorta professione di fede. Esatto: non è nessuna delle due.
Senza entrare in discorsi socio-antropologici troppo complicati, ci basta dire un paio di cose per chiarire la questione. La società moderna – ma ancor più quella contemporanea – ha radicalmente cambiato tutto un sistema di concezioni e valori che nelle epoche precedenti si davano per scontati e per sicuri: è quella che, con una non troppo vaga generalizzazione, viene definita “crisi dei valori”. Bene, con questo nuovo assetto anche l’uomo perde i suoi punti d’appoggio abituali (come Dio per esempio, che smette di costituire la risposta a ogni quesito), crollano le sue certezze e si ritrova quindi a doversela cavare solo con le sue gambe.
È questo il silenzio di Dio: l’horror vacui che l’uomo si trova a dover affrontare senza gli strumenti necessari per farlo; il risultato è la disperazione, su cui, in declinazioni diverse, si chiude ogni film.
E voi illusi che confidavate nelle note di speranza. SCIOCCHI!
L’amore
Per vostra (nostra) fortuna Bergman non era un pessimista, ma semplicemente un crudo realista. Ciò che fa paura – e che di conseguenza è difficile anche solo ammettere o peggio ancora accettare – dell’horror vacui è il fatto che costituisce una situazione reale. Sono sicuro che molti idealisti non saranno d’accordo con me, ma basta un banalissimo esempio. Siete stati lasciati dalla vostra ragazza o dal vostro ragazzo: la soluzione migliore è illudersi e accecarsi sperando vanamente in un suo ritorno o è forse meglio accettare la realtà, anche se dolorosa, e da lì andare avanti? È un discorso vecchio come il mondo ragazzi, ma Bergman lo porta avanti con una classe, un’originalità stilistica e una poetica perfette.
Ma appunto, per Bergman, non finisce mica qui: delle soluzioni esistono (il che è strano da sentir dire da uno che ha tentato il suicidio). Per lo svedese la miglior soluzione esistente è l’Amore. Anche qui, come per Dio, non si intendono quelle cose sporche e immorali che fate con l’altro sesso, ma qualcosa di più. Giusto un tantino di più. L’Amore può essere qualsiasi cosa purché sia sentito, vero, autentico. Ed è (anche) per questo che gli atteggiamenti delle protagoniste de Il silenzio sono così sessualizzati: sono l’esternazione di un amore che non sono in grado di provare ma che ricercano ossessivamente senza mai appagarsi; da qui l’ostentazione. E la disperazione.
E quindi, in un certo senso, il regista riconduce Dio all’Amore, quasi come se l’altro prendesse il posto dell’uno – come in realtà ci viene detto molto chiaramente nel dialogo finale di Come in uno specchio. Giungis in fundo (risate e applausi): una speranza c’è, ma sta a noi trovarla, non è più data a priori. Tutto ciò però deve andare di pari passo con l’accettazione del fatto che soffrire fa parte del vivere e che la felicità è una parentesi in una “sentenza di morte”.
E fu così che Bergman sintetizzò la nostra epoca in uno straordinario bianco e nero, più moderno dei colori stessi.