
Birdman: una mente tradotta in un film
Una fragile armonia serpeggia tra lo sguardo curioso dello spettatore e i movimenti sinuosi della macchina da presa. Una corsa a perdifiato tra schermo cinematografico e mente, perché ad un occhio allenato Birdman appare subito per quello che realmente è: un lungo e (apparentemente) interminabile piano sequenza. Ci si aspetta lo stacco mentre si è seduti, perché il cervello è ormai assuefatto alle inquadrature brevi e montaggio serrato tanto caro al cinema contemporaneo (non esageriamo, diciamo ad un certo cinema contemporaneo). Eppure si resta delusi o, per meglio dire, si è felici di restare delusi. Perché la fluidità, con la quale Iñárritu ondeggia tra i corridoi fitti di saliscendi del teatro di Broadway, è ipnotizzante.
Il copione alla base del film recita così: Riggan Thomson (Micheal Keaton) è un attore già da tempo in declino, ricordato solo per il suo personaggio più celebre (il supereroe Birdman). Decide quindi di tentare il tutto per tutto (vista l’età), e mettere in scena una pièce teatrale tratta da un’opera di Raymond Carver. Il salto di qualità (chi ha visto il film perdonerà la battuta), è permeato da una miriade di difficoltà: attori primedonne come Mike Shiner (Edward Norton), la figlia ribelle dark-punk Sam (Emma Stone), la pressione del produttore e amico Jake (Zach Galifianakis) e last but not least la feroce critica teatrale di Tabitha Dickinson (Lindsay Duncan).
Insomma, già di base il mix perfetto per un ottimo film. Ma Birdman non si accontenta, vuole andare oltre. Non basta fermarsi al ritmo incalzante scandito dal rullare della batteria, mentre lo sguardo dello spettatore tenta di prendere fiato in questi 119 minuti di piano sequenza. Perché Iñárritu (memore della lezione dell’Arca Russa di Sokurov), non vuole consegnare al pubblico solo un virtuosismo stilistico, ha bisogno di svelare il senso profondo che permea il piccolo dramma dell’attore. Ma quale attore? Micheal Keaton, Riggan Thomson o il personaggio dell’opera teatrale che Riggan impersona? Il sistema a scatole cinesi si fonde con il piano sequenza, confondendo volutamente lo spettatore, che fatica a scoprire quale sia il contenitore esatto. Ma forse non c’è un contenitore esatto, non c’è una risposta univoca e soddisfacente.
Anche se il film una certezza la offre: la critica scanzonata e disincantata ai supereroi. Birdman si prende gioco del dilagante filone fumettistico di Hollywood, e lo fa in un momento in cui questo tipo di film sta dominando il box office mondiale. Compie questo piccolo miracolo attraverso le similitudini tra la vita di Micheal Keaton e il suo personaggio, con l’attore che dimostra di essere molto di più del primo (e secondo) Batman di Tim Burton, arrivando anche a sfiorare il premio Oscar (ma si sa, l’Academy predilige chi interpreta un malato di una qualsivoglia malattia, quindi è una battaglia persa in partenza).
La lotta infinita tra Riggan/Birdman, e quindi tra sacro e profano, imperversa sin dall’inizio. I duelli nella mente del protagonista vengono centellinati da Iñárritu, che li inserisce nei momenti in cui il profano sembra dover cedere e soccombere al sacro.
Un dualismo dunque che permea tutta la pellicola, perché la domanda che tiene banco è proprio questa: può un attore di film qualitativamente scadenti stravolgere la propria vita e approdare alla sacralità del teatro? Birdman cerca la risposta, tra le urla e le stranezze, tra i pianti e la follia.
Perciò chi vince alla fine? Il sacro o il profano? Nessuno dei due, o forse entrambi, sta allo spettatore giudicare. Riggan però, anche grazie all’imprevedibile virtù dell’ignoranza (descritta dalla critica Tabitha che aveva giurato di stroncare lo spettacolo) riesce a riscattarsi. Riesce a riscattarsi? Forse. Il finale apertamente onirico, dal retrogusto Kubrickiano, lascia lo spettatore come il volto di Sam: consapevole di quello che è successo, ma sorridente verso il cielo.