Black Mirror, stagione 3: ecco come l’uomo lascia che sia la tecnologia a prendere il sopravvento.
N.B. Non ci saranno spoiler sui finali degli episodi, ma solo qualche nota sul loro contesto/situazione di partenza.
“Un’antologia in sei parti”
Questo recita il sottotitolo della terza stagione di Black Mirror, la serie che, come abbiamo già visto, sta scompaginando i principi della serialità moderna, elevando il format della serie tv da semplice intrattenimento a discorso sulla realtà, sui suoi aspetti più oscuri e disturbanti. Ma perché per la prima volta vediamo questa dicitura “antologia” accompagnare il nome della serie passata sotto le grinfie di Netflix?
Qual è il senso?
Il senso è che Black Mirror è diventata (o forse lo era già dopo la messa in onda del primo episodio) una serie culturalmente importante e mai come questa volta il messaggio della terza stagione è univoco, anche se declinato attraverso sei differenti sfumature, sei diverse storie: l’uomo sta perdendo il controllo, si sta facendo a poco a poco fagocitare da questo magma ribollente che è il web, il social media, il senso di impersonale onnipotenza che danno i mezzi di comunicazione che – in alcuni casi – possono dimostrarsi mortali. Il monito di Black Mirror si leva così da questa six part anthology scritta, come sempre, da quel Charlie Brooker di cui desidereremmo finalmente un romanzo che vada a completare questa sua meravigliosa e crudele parabola sulla distopia.
Le generalità
La serie questa volta presenta un format più esteso, con puntate che superano tutte i sessanta minuti di durata, culminando con Hated in the nation (3×06) che (oltre a essere il titolo di un album di quel pazzoide di GG Allin) si può considerare un vero e proprio thriller distopico di un’ora e mezza.
Cominciamo col dire che questa stagione, pur avendo un livello pazzesco, non è perfetta: almeno due puntate sono viziate da una più sfilacciata aderenza alla realtà, che non ne compromette affatto la visione, ma smorza un po’ la carica satirica/parodica che vediamo nelle altre quattro puntate e tipica della serie. Chiariamoci: io da Black Mirror non mi aspetto solo belle storie, ma voglio che sputi in faccia a tutto e tutti, che pisci in testa al presente, che faccia a pezzi tutto quanto, voglio sentirmi distrutto psicologicamente alla fine di ogni episodio. Invece il secondo e il quarto episodio (Playtest e San Junipero) sono eccezionali come sempre sotto il profilo narrativo, ma restano un po’ sganciati dal resto, presentano scenari davvero molto molto interessanti (e mi riferisco soprattutto a San Junipero), ma mancano di approfondirli criticamente.
La cattiveria di Charlie Brooker
Non voglio tirare in ballo Artaud, il teatro della crudeltà e tutte quelle teorie bislacche sullo schiaffeggiare (moralmente) lo spettatore per far passare meglio un messaggio, ma sta di fatto che Black Mirror è (anche) questo: una serie che preferisce il pugno in faccia piuttosto che la paternale. Il perché si evince chiaramente da quello che vediamo sullo schermo: Brooker considera l’uomo come un animale cattivo, codardo, stupido, facile da ingannare, servile ed egoista. Non può pensare di propinargli un sermone da oratorio, preferisce stenderlo a cazzotti e poi tenergli ferma la testa per costringerlo a guardare cosa diavolo sta combinando.
Il primo episodio (Nosedive) è una chiarissima – e inquietante – trasposizione di tutto ciò: in un mondo in cui l’apprezzamento altrui ti definisce come persona, lo strapotere dei social media è tutto. Lacie è una drogata di like esattamente come tanti al giorno d’oggi. Il vero problema non è però questo, quanto il fatto che non si tratti di una condizione singolare, ma generale. Non è tanto Lacie a essere drogata di like, ma la società, quindi Lacie per vivere in società e non diventare un’emarginata non può sottrarsi a questo meccanismo infernale.
Davanti a uno schermo non siamo mai da soli
I due veri e propri pugni nello stomaco che ti lasciano piegato e schifato da tutto e tutti sono però Shut up and dance (3×03) e Men against fire (3×05). I due episodi sono privi della forte carica parodica di Nosedive, nel senso che non fanno così tanto il verso alla realtà, ma presentano due differenti storie (la prima verosimile, la seconda assolutamente distopica) centrate su un aspetto preciso del problema-tecnologia, storie tremendamente crudeli e inesorabili, che affondano nella carne dello spettatore come pugnali gelati.
In Shut up and dance il protagonista è Kenny, adolescente solo ed emarginato che vive attaccato al pc.
Kenny è solito sfogare le proprie frustrazioni sessuali masturbandosi mentre guarda immagini pornografiche in rete, ma quello che non sa è che il suo computer ha contratto un malware del tutto particolare: dietro la web-camera del suo portatile c’è qualcuno che sta filmando tutto quanto. Subito dopo l’atto cominciano ad arrivare email minacciose che lo avvisano del fatto che se non ubbidirà ciecamente alle direttive che gli verranno date via SMS il video galeotto finirà in rete, con tutte le conseguenze del caso.
La tragedia di Kenny è un susseguirsi di tensione crescente, di crudeltà (apparentemente) inspiegabile, in una storia che andrà ad intrecciarsi con quella di molti altri perché – e il messaggio di fondo è questo – anche se davanti a uno schermo ci sentiamo soli e al sicuro in realtà c’è sempre qualcuno che ci può vedere, che ci controlla.
E poi magari spendeteli due soldi per un buon antivirus.
Gli scarafaggi siamo noi
Men against fire (3×05) si sposta invece su un futuro distopico in cui il mondo ha superato un terribile conflitto del quale ci viene detto poco. Bande di militari dotati del sistema “Mass” (una sorta di chip che gli permette di vedere meglio le zone di guerra e poter essere più letali in combattimento) battono una campagna desolata a caccia degli “scarafaggi”, terribili mutanti sanguinari che devono essere ammazzati senza pietà. Il protagonista è Stripe, soldato entrato da poco nella milizia che vuol fare carriera, ma che presto si trova coinvolto in qualcosa più grande di lui, che gli dimostrerà come il sistema che sta servendo ciecamente forse sta nascondendo una verità tremenda.
In Men against fire la critica di Brooker si sposta dal piano sociologico a quello puramente politico, in pieno accordo col genere distopico (1984, La svastica sul sole, Fahreneit 451, V per Vendetta eccetera). La domanda che muove tutto quanto è sempre la stessa: cosa succederà quando ci fideremo ciecamente di quello che ci viene detto, quando lasceremo che siano altri a decidere per noi in ogni situazione?
La risposta di Brooker è una e terribile, ma non vi voglio rovinare la sorpresa.
Odio assoluto
La stagione si chiude col botto con Hated in the nation, titolo che si può tradurre facilmente con “Odio assoluto”. Che si tratti di una dichiarazione di poetica oltre che un titolo emblematico per l’episodio? Conoscendo Brooker direi di sì.
In un futuro prossimo dove le api si sono estinte (e qui subentra anche il sottotesto ambientalista) e rimpiazzate da api meccaniche un cyber-killer sfrutta un hashtag assassino per far decidere al popolo dell’internet quale personaggio famoso dovrà morire in circostanze misteriose. Il racconto è ricco di facce conosciute, a partire dalle due protagoniste Kelly MacDonald (volto noto per chi ha visto Trainspotting) e Faye Marsay (una irriconoscibile Orfana direttamente da Westeros) e si dipana in modo meraviglioso, in un crescendo di tensione non fine a sé stesso.
Il dito di Brooker punta dritto contro quelle manifestazioni ingiustificate di odio che vediamo quotidianamente sui social, quei messaggi dettati da frustrazioni personali e vite insoddisfacenti inviati da un milione di facce sconosciute che giudicano, ignorano e si dimostrano nient’altro che bestie feroci. Quest’ultimo episodio ci lascia “percossi e attoniti”, in attesa di una prossima stagione che venga a riempire il vuoto che ci sentiamo dentro dopo questa eccezionale antologia, il cui messaggio (neanche tanto subliminale) più doloroso è che quell’umanità devastata, quelle sagome sconfitte e malvagie non sono solo personaggi, no: quelli siamo noi, noi oggi, noi adesso, noi sempre.
jj
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