
Blade Runner 2049: avete mai assistito a un miracolo? Io sì, l’altra sera al cinema
Chi ha già visto Blade Runner 2049 sa a cosa mi riferisco. Gli altri invece perché perdono tempo con questa recensione? Ecco, ora volevo scrivere una roba tipo “tanto sono solo parole che si perderanno nella pioggia”, ma non riesco a farmi venire in mente nulla che non suoni paraculo. E per “suoni paraculo” intendo proprio un brutto peto. Jared. Ok la smetto, perdono. Quindi via, fuori di casa e di corsa al cinema, che San Villeneuve si è manifestato in tutta la sua grazia spandendo celluloide da ogni suo poro e regalandoci un gioiello così prezioso come Blade Runner 2049.
Eh? State ancora leggendo? Dai pensavo di cavarmela così e invece mi tocca parlare del film. Oh beh, se proprio me lo chiedete. Cercherò di evitare spoilerz molestissimi, male che vada li metto sotto il bannerino così siete tranquilli e potete leggere.
Perché è innegabile che nessuno fosse tranquillo alla notizia del sequel di Blade Runner. Già solo per la sua importanza capitale nella storia del Cinema (se ne parlava tempo fa qui). Avevamo tutti il nostro buchetto per popò così stretto da non farci passare nemmeno una capocchia di spillo (parafrasando Grommet in Point Break). Ma sapevamo pure che c’era un certo Denis Villeneuve dietro la macchina da presa. Ecco, restando in tema, al momento a Villeneuve regalerei volentieri le chiavi per il mio didietro. Perché dopo Enemy, Prisoners, Sicario e Arrival davanti a quest’ometto canadese bisogna solo inchinarsi.
Bene, pippone iniziale finito. E quindi? Quindi mettiamo subito le cose in chiaro: Blade Runner e Blade Runner 2049 sono due film diversi. Basta con ste cacate che leggo in giro tipo “è meglio del primo” o “è una porcata” eccetera eccetera. Stesso universo, mood simile, intenti opposti. Punto. Diamo per assodato tutto ciò che ha reso il film di Scott il maledetto capolavoro che è e andiamo oltre. Perché Villeneuve è riuscito dove tutti pensavano sarebbe crollato peggio di uno zio obeso al barbecue di famiglia. Ha trovato la sua strada nell’universo Blade Runner, la sua personale cifra stilistica che omaggia e ricorda con consapevolezza ma poi si alza sulle proprie gambe.

Blade Runner 2049 emerge dalle gloriose macerie del suo predecessore, quasi in sordina, lentamente, come una salamandra che si scrolla di dosso la sabbia dopo una tempesta. L’ambientazione? È sempre quella, il retrofuturismo spruzzato di Atari, la tecnologia sporca ma con i brillantini Sony. Gosling e la sua abbagliante inespressività sono un connubio perfetto per il nuovo antieroe (del quale, giustamente, sappiamo tutto fin da subito). E, come Deckard, anche lui si muove in questo mondo… meno chiuso del precedente. Ok, sono passati trent’anni (e tre corti) ma Blade Runner 2049 allarga subito i suoi orizzonti, sfumandone i contorni in questa nebbia via via meno rada, come la coscienza dell’Agente K Goslinghiano (si potrà dire “Goslinghiano”? Sticazzi, ormai l’ho fatto).

Non più solo Los Angeles (seppur sempre presente), perché Villeneuve decide di farci partire, mente e corpo, cercando all’interno di un labirinto quello che forse sapevamo fin dall’inizio (noi e K). Ecco la grossa differenza di Blade Runner 2049: è un film dolcemente intimista. Sì, ammantato di epica, ma resta una pellicola sorretta dai sentimenti, da un rapporto uomo-macchina che, in questo caso, supera il sassolino lanciato da Scott nel 1982. Basta vedere la prima scena con K e Joi (una Ana de Armas fastidiosamente bella) assieme per scavare già nel cuore del film. Ed è inevitabile correre con la mente a Lei di Spike Jonze, soprattutto per un altro momento (chi ha visto sa), così carico, fragile, pronto a svanire in un soffio e quindi splendido nel suo essere effimero. Una delle scene migliori del film.
Perché il potente intimismo è una delle cifre stilische di Villeneuve, e Blade Runner 2049 danza sapientemente su quel filo, con noi sotto a bocca aperta mentre neanche qualche alito di vento fa cadere l’acrobata. Certo, siamo tutti d’accordo nel dire che non inventa nulla ma… era necessario? No, soprattutto scomodando un mostro sacro come Blade Runner. Villeneuve ha saputo esattamente in quali spaccature infilarsi, riempiendo gli sparuti buchi (non di trama eh, sia ben chiaro) lasciati dal primo film alle future generazioni. La storia era lì, ci voleva soltanto un pazzo per raccontarla e metterla in scena.

Certo che se poi questo pazzo è affiancato da Roger Deakins allora dovrebbero riaprire i manicomi e farmici fare un giro. Rinnovo l’appello: date un Oscar alla fotografia a quest’uomo. Deakins ha saputo creare una palette di colori che riprende Blade Runner riadattandola al presente (nostro) e al presente (profilmico). È riuscito a raffreddare i colori caldi dando fuoco a quelli freddi. Perché l’inquadratura di Gosling nel deserto è già iconica, pochi cazzi. Ah, musiche di Hans Zimmer (e di quell’altro genio di Jóhann Jóhannsson) mischiate ai Vangelis originali: orgasmi uditivi, puri e semplici.

E il resto? Un Harrison Ford usato con dovuta parsimonia, centellinato come tutti i richiami al primo film: l’occhio, il Voight-Kampff e gli origami, per citarne alcuni. Deckard c’è ma non sovrasta, così come il Neander Wallace di Jared Leto: nonostante uno spiegone iniziale di troppo il suo personaggio convince proprio per la calma asettica con cui porta avanti i suoi piani. E Robin Wright qualsiasi cosa faccia è regale, non c’è storia.
Troppo lungo? Opinabile. Blade Runner 2049 è un cuore livido preso a cazzotti che cerca una ragione per continuare a battere. Cola emozioni da ogni ferita, come una vecchia spugna incapace di trattenere l’acqua ma che ancora vuole essere utile. Lo diceva Niccolò Fabi (non per primo ovviamente) nel 2003: è la cura del tempo, diventata eterna per i Nexus 8, eterna come la loro fuga dalla società, da quei Blade Runner che spesso e volentieri sono creati appositamente per “ritirarli”. Il tempo deve quindi essere dilatato, per far areare i sentimenti nascosti dalla macchina, per umanizzare esseri che di umano hanno solo la pelle. Il film deve respirare lentamente, e noi con lui.

E Deckard quindi? Il megadibattito clamoroso “è un replicante? Sì/no/forse risp subito” viene sciolto? Lasciatemi usare la parola con cui Mark Rylance si è portato un Oscar a casa per rispondere: “servirebbe?”. Perché Blade Runner 2049 lo ribadisce ancora una volta: non è importante. Strizza l’occhio, allude, ma il punto focale è un altro: non importa il come, ma solo ciò che ha prodotto.

E qui scusate ma uno spoilerino sul finale devo farlo, tanto lo nascondo. Aprite a vostro rischio e periglio.
[su_spoiler title=”Spoilerazzo (carino però)”]Dapprincipio avevo storto il naso sulla predestinazione di K, sembrava tutto troppo disteso sul suo cammino, tutto molto “facile”. Poi il colpo di scena così dolce nella sua violenza mi ha estasiato. E K era effettivamente predestinato, ma nella maniera diametralmente opposta. La sua accettazione finale è liberatoria, felice, potente nella sua umile semplicità. Così come la grandezza (visiva, fotografica, espressiva ai limiti del mastodontico) di Blade Runner 2049 si “riduce” a un padre che ritrova una figlia, a un amore (forse, non lo sapremo mai) proibito che genera un frutto perfettamente sfuggevole in grado di cambiare ogni cosa.[/su_spoiler]E quindi? Eh, quindi c’è poco da fare: Blade Runner 2049 è il degno erede di Blade Runner senza però esserlo davvero. E, allo stesso modo in cui il film di Scott non si perderà mai come lacrime nella pioggia, il film di Villeneuve non sparirà mai in mezzo a mille fiocchi di neve.