
Blade Runner: l’università della fantascienza
«Io ne ho viste cose…».
No, sarebbe troppo scontato cominciare così. Bisogna conservare la citazione per dopo, potrebbe tornare utile. Meglio concentrarsi su di un dettaglio che ad uno sguardo superficiale può apparire banale. Fra tre anni il futuro filmicamente vaticinato da Blade Runner sarà il presente, e fra quattro invece sarà già il passato. Sembra quasi di sentire l’eco del Big Brother di Orwell che ha subito la stessa sorte. Ora però si aprono due strade parallele, da percorrere ugualmente: quanto ha influito nel cinema di fantascienza la pellicola di Ridley Scott e quanto di ciò che contiene è effettivamente realtà?
Facciamo prima un piccolo salto indietro per riepilogare cosa accade in questa Los Angeles del 2019. Rick Deckard (Harrison Ford) è un ex membro dei Blade Runner, un corpo speciale della polizia che si occupa di ritirare (vedi eliminare) i cosiddetti replicanti, esseri dall’aspetto uguale all’uomo creati dalla Tyrell Corporation. Grazie ai progressi della tecnologia, essi sono superiori fisicamente e cerebralmente agli umani (ma con un limite di vita di quattro anni), e vengono utilizzati come schiavi nelle colonie spaziali oltre la Terra. Quando sei di essi (tre uomini e tre donne) fuggono da una colonia tornando sul nostro pianeta (dalla quale sono stati dichiarati illegali), tocca a Deckard riprendere in mano il distintivo ed avventurarsi nella Los Angeles distopica per scongiurare la (possibile) minaccia.
Quindi, tornando alla doppia domanda, una risposta semplicistica e diretta potrebbe essere questa: Blade Runner è, e probabilmente sempre sarà, un punto di riferimento assoluto per un certo tipo di fantascienza. Ripreso, omaggiato, copiato (basti pensare all’ultimo Total Recall – Atto di forza del 2012), dire che ha fatto scuola è un eufemismo.
Ma partiamo dall’ambientazione. La sua L.A. è sporca, bagnata, opprimente, affollata. La tecnologia che la permea è retrofuturista: certo, ci sono le auto della polizia volanti, ma anche i vid-phones (e anche se oggi non ne abbiamo uno in ogni bar, come nel film, ne abbiamo probabilmente uno in ogni tasca).
Il protagonista Deckard si inserisce perfettamente nell’ambiente: antieroe consapevolmente amalgamato nell’antifuturo (sottolineato dal dolly iniziale che dall’alto scende scavando tra la folla fino a scovare l’ex poliziotto). La colonna sonora avvolge personaggi e ambiente, con Vangelis che segue le direttive di Scott creando una commistione di classico ed elettronico, di arpe e sintetizzatori, che fungono da perfetto contrappunto per trasportare il film in musica.
C’è il melting pot di diverse culture (la lingua che si parla nelle strade è uno slang plurilinguistico), ma soprattutto c’è il Giappone. Perché in quegli anni la terra del Sol Levante era sinonimo di futuro, e Hollywood lo insegnava tramite le sue pellicole. A catturare l’attenzione è la geisha che campeggia nella pubblicità, che ingoia a ripetizione una pillola (pare anticoncezionale). Ma il regista inglese aveva già messo la pulce nell’orecchio con il suo Alien del 1979, chiamando la corporazione internazionale, proprietaria della nave spaziale Nostromo (dove Ripley e compagni incontreranno lo xenomorfo), Weyland-Yutani (che avrà un ruolo sempre maggiore nel sequel diretto da James Cameron). Poi la trilogia di Robert Zemeckis: nella seconda e terza parte di Ritorno al futuro, non sono pochi i riferimenti al Giappone come visione futuristica del mondo. Ultimo in ordine di tempo è Big Hero 6: la città in cui sono ambientati gli eventi del film di animazione si chiama, non a caso, San Fransokyo.
Fallendo clamorosamente al botteghino (ma diventando subito un cult), Blade Runner ha ridisegnato il genere, discostandosi consapevolmente dalla magistrale lezione di 2001: Odissea nello spazio, ma solo nei toni, nella scenografia, nella rappresentazione di un futuro che è diretto opposto di quello asettico e pulito del capolavoro di Kubrick. Lui ha cambiato per sempre la percezione visiva dei viaggi spaziali, Scott quella della distopia cittadina.
Il film quindi non si perderà come “lacrime nella pioggia”, quelle lacrime piante, in un misto di gioia e dolore, da Roy Batty (Rutger Hauer) durante uno dei monologhi più famosi della storia del cinema (modificato dallo stesso attore perché, a detta sua, quello in sceneggiatura risultava poco drammatico). Queste lacrime può piangerle solo un occhio consapevole, e Ridley Scott conosce bene la duplice valenza del cinema, di osservante e di osservato, tanto da aprire il suo film con i fuochi di Los Angeles che si innalzano nella pupilla di un impiegato della Tyrell Corporation (Buñuel docet). Ma non solo, guardare può anche essere una colpa, perché si diventa partecipi di ciò che sta accadendo, e i pollici di Roy Batty che scavano gli occhi di Eldon Tyrell (Joe Turkel), padre e padrone dei replicanti, esemplificano al meglio il concetto.
Quindi, sebbene non abbiamo mai visto “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione”, abbiamo visto come il futuro può diventare, e quanto il cinema sia in debito con Blade Runner. Per la pellicola, riprendendo ancora il monologo del replicante, non sarà mai “tempo di morire”.