
Borg McEnroe è solo un Rush che non ci ha creduto abbastanza
Io lo sapevo che finiva così. Che alla fin fine pure il trailer di Borg McEnroe poteva bastare. Però oh, avevo un omaggio al cinema e speravo che il vichingo Janus Metz Pedersen (semisconosciuto se non per aver diretto un episodio della tragica seconda stagione di True Detective) mi facesse ricredere. Perché i biopic sono come una puntata di Takeshi’s Castle: finire nella fanga è un attimo. A meno che tu non sia Aaron Sorkin, in quel caso pure la storia del Divino Otelma vincerebbe l’Oscar.
Eppure le rivalità sportive affabulano da sempre, soprattutto quando, come in questo caso, il destino le ha rivestite di epica. Della storia vera sapevo poco, lo ammetto, e ho cercato di non tappare questa brutta lacuna tennistica proprio per godermi Borg McEnroe al meglio. È servito? Nì, ma ci arriviamo.
Perché alla fine il patema mio, grosso, era uno solo: sarà Borg McEnroe un Rush slavato? Eh. Vediamo di capire perché.
Dato che è una storia vera non ha senso dirvi che ci saranno spoilerz, ma per evitare di finire come Frankenstein vi avverto in anticipo, così non accendete i forconi.
Quindi. Quindi qual è il problema di Borg McEnroe, mi chiederete voi? In realtà nessuno. Perché Borg McEnroe è esattamente il film che ci si aspetta. Semplice, diretto, chiaro. Lascia poco all’immaginazione dello spettatore, soprattutto dal punto di vista dei dialoghi. Ciò che esce dalla bocca dei personaggi è molto “classico”, tutto preimpostato, tutto come dovrebbe essere. “Sì ma che battuta di maroni al coltello un film che va esattamente come dovrebbe andare”. Scusate, questo era il mio cervello che parlava senza filtri.
Che poi è anche il motivo per cui Borg McEnroe non è un brutto film: nel suo essere prevedibile non sbaglia mai. Cioè, pure Rush lo era, ma qui siamo davvero al limite del didascalico. Björn e John vengono seguiti lentamente, in un movimento circolare che inizia e finisce con la finale di Wimbledon del 1980, prima vera sfida per un titolo importante tra i due (anche se si erano già affrontati più volte in passato). Ogni momento topico del presente viene spezzettato nelle immagini dei due da ragazzini che lo richiamano, fino al più classico dei montaggi alternati durante il leggendario tie-break (18-16) della finale, che vede Borg e McEnroe bambini e adulti affrontare la stessa sfida su due piani temporali diversi. Carino eh, ma il mio falegname con trentamila lire la pensava meglio.

Quindi la pellicola si regge fondamentalmente sulla ricchissima realtà della vicenda, diventando a tratti un documentario ben recitato. Lo svedese Sverrir Gudnason (conosciuto prima del film per essere stato una scarpiera componibile dell’Ikea) è magnetico. Borg/Sverrir ti congela al suo cospetto, facendoti percepire quella mina inesplosa pronta a fare strage. Shia invece è… Shia. Dai, fare McEnroe era proprio il suo: un matto che si incazzava con l’arbitro perché non faceva andare via i piccioni. A Song of Ice and Fire di Ciccio Pasticcio Martin è palesemente basato su loro due. Nel senso che McEnroe è un misto tra R’hllor e Melisandre e Borg invece il figlio bastardo del Re della Notte e Arya Stark. Ok, l’immagine orribile che mi è appena arrivata vale come punizione, non infierite.
Borg McEnroe è un film che piace ma non palpita, è un film che… ok, sto per farlo. Sto per citare Marracash. Respiro profondo. Posso farcela. Eccoci: e tu fai musica che piace a tanti ma non fa impazzire nessuno. Ora mi ascolto Master of Puppets per fare ammenda, promesso. Comunque, il verso del Marra nazionale è direttamente applicabile al film, che esegue bene il suo compitino senza però segnare alcuna tacca. Al massimo scrive una battuta simpatica nei cessi dell’autogrill. Tipo quella del cinese che cercava l’Emilia Lomagna e gli indicavano la casa di Pinuccia Lociuccia.

E cretedemi che Janus Metz Pedersen ci prova, senza però brillare mai. Della sua regia salvo alcune scene ben riuscite:
- quella iniziale di Borg in bilico sulla ringhiera dell’albergo, immagine squadrata, composta, ma a un soffio dal suicidio.
- Borg contro la macchina sparapalle che equipara i due “giocatori”.
- il pavimento di racchette come tappeto mentale del tennista svedese.
- e anche la torta dai, anche se c’era Capitan Ovvio che mi sgomitava dicendo “la torta con la sua faccia, tutti che la tagliano, tutti che vogliono un pezzo di lui, eh, eh, hai visto che metafora?”.
Perciò si ritorna sempre lì: Borg McEnroe non è un brutto film, è una pellicola godibile senza guizzi particolari, con un découpage molto canonico che vira più verso un chiaro descrittivismo alla Eastwood, finendo per essere un fuoco d’artificio che sfiorisce quasi nel documentario recitato.
Cacarella. (Eh, avevo detto troppe parole difficili).

Della vita dei due non sto a parlarvi, che fare Wikipedia non mi piace, ma resta il fatto che Rush finiva così:
Ovviamente, non mi diede ascolto. Per James vincere un campionato era stato sufficiente. Aveva dimostrato quello che voleva dimostrare. A se stesso, e a tutti quelli che dubitavano di lui. E due anni dopo si ritirò. Quando lo rincontrai, sette anni dopo, a Londra, io di nuovo campione e lui commentatore per la tv, era scalzo, su una bici, con una ruota a terra. Viveva ancora ogni giorno come se fosse l’ultimo. Quando seppi che era morto d’infarto a 45 anni, non ne fui sorpreso. Mi fece solo tristezza. La gente ci ha sempre visti come due rivali, ma lui mi piaceva. Era una delle poche persone che apprezzavo, e una delle pochissime che rispettavo. E ancora oggi rimane l’unico che abbia mai invidiato.
Borg McEnroe invece alterna foto d’epoca a frasi sul fatto che i due, dopo la partita, sono diventati grandi amici. Sarà colpa mia eh, ma io di scosse leggere lungo la spina dorsale ne sento solo una.