
Bowling a Columbine: una partita che ancora non si chiude
NELL’AMERICA PROVVISORIA DI BUSH UNA VOCE FUORI DAL CORO PONE DOMANDE A CUI NESSUN AMERICANO PENSAVA DI DOVER RISPONDERE.
2002. Sono passati cinque anni dall’ultimo lungometraggio, The Big One, e dopo progetti televisivi e cortometraggi, Michael Moore torna al Cinema. È venuto, finalmente, il momento di parlare di una delle tematiche per lui più importanti: gli Americani e le armi.
Cosa rende gli Stati Uniti il paese col più alto tasso annuale di omicidi per arma da fuoco? Cosa significa per un americano possedere un’arma? Cosa significa per un americano impugnare un’arma? E usarla?
Per rispondere a tutto questo occorre far ricorso a varie teorie, fatti di cronaca, opinioni, domande. Vanno tenute in considerazione piccole realtà del grande stato federale, perfino quelle rurali.
Un bel carico insomma. Come condurre un così ampio e complesso discorso in modo adeguato? Serve una chiave, qualcosa per gestire questo enorme materiale. Ecco, quindi, che Moore decide di prendere uno dei fatti di cronaca più traumatici degli anni di Clinton: il massacro della Columbine High School.

Il 20 aprile del 1999 due studenti armati irrompono nella scuola Denver dando inizio a una violentissima sparatoria che avrà il suo termine solo con 13 morti (tra cui un insegnante), 24 feriti e con il suicidio dei due ragazzi. Un fatto che coglie di sorpresa la piccola comunità di Littleton e gli Stati Uniti, fino a plasmare un significato ben preciso per il termine Columbine.
A seguito di questo evento non ebbero luogo solo diversi dibattiti riguardo alle ragioni dietro la rabbia dei due ragazzini, ma in tutti gli Stati Uniti ebbero luogo misure, contromisure di sicurezza e prevenzioni al limite del ridicolo e del grottesco. Una piccola crisi generava istantaneamente un putiferio mediatico.
Un tipo di psicosi che avrebbe fatto da prova generale all’ondata di terrore generata dall’attacco terroristico dell’11 settembre.
L’AMERICA “PROVVISORIA” DI BUSH
Dopo la guerra non arriva subito la pace. Prima di poterla toccare ci sono due momenti da affrontare: il dopoguerra e l’antepace. In questo periodo di mezzo si evidenziano molti aspetti negativi (che appartengono alla guerra) e diversi aspetti positivi (legati alla pace). Più i secondi sovrasteranno i primi e più la nazione potrà dirsi vicina alla pace e lontana dalla guerra. Quando questo accadrà, la gente comincerà a ridere di quello stato provvisorio che ancora si andava formando dopo gli anni di guerra.
Ma verrà un momento in cui il riso si tramuterà in profondissima vergogna, perché la nazione di quel periodo mostrerà chiaro il suo volto “bieco e un po’ cretino“ e sarà chiaro che su uno stato così non può fondarsi lo stato dell’avvenire.
Questo scriveva Giovannino Guareschi nel suo L’Italia provvisoria parlando del nostro stato appena uscito dal secondo conflitto mondiale.
Quella che vediamo in Bowling a Columbine è proprio un’America “provvisoria”, appena uscita da un periodo di cruenti fatti di cronaca e di scandali politici (come lo scandalo di Monica Lewinsky o la vittoria di George W. Bush). Ma, soprattutto, è una nazione appena uscita dall’esperienza traumatica dell’attentato alle Torri Gemelle, uno dei momenti più duri della Storia Americana.
È un’America scossa, informe e poco propensa a prendersi in giro e ad auto criticarsi. Che, sentendosi sotto una minaccia costante, preferisce crearsi una roccaforte domestica per difendersi da qualsiasi pericolo piuttosto che appurarne l’esistenza. Unica priorità: sentirsi al sicuro.
LIVING THE AMERICAN NIGHTMARE
Ma gli americani lo sono davvero (al sicuro)? Una domanda semplice che apre la strada a un percorso apparentemente parallelo.
Michael Moore si chiede, infatti, perché, se davvero si sentono così al sicuro, gli Americani sembrino letteralmente impazzire ogni volta che scoppia una piccola crisi.
Ma ecco che una serie di servizi televisivi sembrano suggerire una risposta alla domanda: sebbene le cifre facciano pensare ad un minore incremento del tasso di criminalità, i media non fanno altro che bombardare il povero cittadino americano di notizie che confermano le sue paranoie, accrescendole e creandone di nuove.
Le notizie puntano solo a premere determinati pulsanti della coscienza dello spettatore distraendolo da quello che può essere la causa sociale dietro a un atto di violenza.
Anche la tv dei reality sembra impostarsi in questo senso: parlando con membri dello staff della grande televisione appare chiaro che anche in programmi come Cops, reality sulla polizia, tutto risulti essere uno squallido spettacolo di cowboys e indiani.
Pur essendo “real tv”, il reale non deve permearla più di tanto: questo ha sempre bisogno di una selezione, di un rimaneggiamento. Ma non per trasformarla in falsità, ma per semplificarla e renderla veloce da incamerare: al pubblico serve sempre una chiara distinzione di buoni e cattivi, meglio se proveniente da convinzioni di massa, come l’istintiva paura per il diverso o per il mondo che la circonda.
Come se già non lo fossero abbastanza, insomma, gli Americani vengono ancor più terrorizzati dai notiziari e dagli speciali televisivi.

L’informazione, toccata dal consumismo, diventa qualcosa di simile al fast food: gustosa, veloce da consumare ma anche pericolosa per l’individuo e che finisce per dargli assuefazione, disabituandolo alla buona informazione e rendendolo uno schiavo che vive da naufrago nel mare della paura.
Come diceva il cantante Marilyn Manson durante la sua intervista all’interno del documentario:
Lascia che continuino ad avere paura e consumeranno.
Una semplice considerazione che trova in questa parte di Bowling a Columbine la sua più beffarda realizzazione.
Ma questo non deve stupire o rendere scettici noi italiani, d’altro canto anche la nostra televisione non ha mai mancato di seguire questo modello, specie in quest’ultimo periodo.
“SEMPRE CONTRO IL CONFORMISMO. ANCHE A COSTO DI ROMPERSI LA TESTA…”
Ma è possibile discutere di queste cose in un’America come quella del post-11 settembre? Forse, ma chi di voi avrebbe voglia di criticare un popolo armato e impaurito a morte?
In Bowling a Columbine, Moore decide di imbarcarsi in questa missione folle e di spingere i suoi concittadini a guardare in una direzione diversa da quella indicata dalla cinica macchina della propaganda patriottica di Bush.
Invece di guardare all’Iraq, nella speranza di trovare un fantasma, Moore indica per terra, sotto il tappeto della vergogna tessuto dalla propaganda dell’America forte, dove i suoi indigenti annaspano nella miseria, dove la classe media viene gradualmente inghiottita senza che possa avere il modo di capire il perché. Dove pessimi programmi di lavoro contribuiscono a mandare in rovina delle povere famiglie e dove una pessima gestione della rabbia e della frustrazione provoca incidenti dentro e fuori la nazione.
Ma Bowling a Columbine non è un documentario clinicamente lucido e serioso. Anzi, Moore mostra, in tutta la sua maturità, il suo tipico modo di fare vicino a quello dell’umorista.
I Partiti di massa non hanno giornali umoristici, né possono averli (…) perché è tutta gente che pascola nei prati della retorica e per esistere ha bisogno di quei tabù che l’umorismo non può rispettare.
(…) L’umorismo non è ammesso. Umorismo vuol dire non soltanto critica, ma soprattutto autocritica. E l’autocritica è ragionamento freddo e tranquillo, mentre invece le masse vivono esclusivamente di “fede politica”.
Giovannino Guareschi, L’Italia provvisoria
Nelle interviste, nel montaggio delle sequenze (che a volte fungono quasi da risposta a quel che viene dichiarato dagli intervistati), nella voce fuori campo. In ognuno di questi elementi emerge il suo spirito polemico e, a tratti, impertinente e dissacrante che, con una certa dose di orgoglio, affronta l’ipocrisia e l’immagine ufficiale della nazione.
Da buon attivista, nelle interviste dà la parola alle vittime e ai reietti, scavando nella loro tragedia; torchia gli addetti alle Pubbliche relazioni delle compagnie e delle lobby: va fino in fondo, fin dove può, arrivando a cogliere in fallo le idee liberali che hanno portato il popolo americano, e la sua morale, alla rovina e al totale degrado.
Anche a costo di sbagliare, di mancare un bersaglio o di non portare a casa alcun risultato, Moore continua imperterrito ad irritare il potere (che sia quello della Casa Bianca o che sia quello delle lobby) con il suo graffiante cinema di denuncia, che senza tregua lancia domande, obiezioni e dubbi.
Tutto pur di riuscire a cambiare qualcosa e, magari, a mettere in guardia il resto del mondo, perché non diventi come il suo paese. Purché si arrivi finalmente a ragionare con lucidità e serietà sul bowling di Columbine, perché possa chiudersi.