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Buon compleanno Beautiful: trent’anni di tragedie shakespeariane nel segno del kitsch

Mi scuso in anticipo per la latitanza con i miei venticinque lettori, per citare uno che a scrivere era bravino, ma sono reduce dai tipici bagordi da compleanno: in data 23 marzo la sottoscritta ha infatti tagliato il trascurabile traguardo dei ventisette anni. Perché questa premessa? Perché ho un ego elefantiaco e voglio che l’universo intero mi faccia gli auguri, certo, ma pure perché ho l’onore di condividere il genetliaco con una cosa ben più illustre di me, e soprattutto immortale: Beautiful, che di anni ne ha compiuti ben trenta.

The Bold and the Beautiful, questo il titolo originale, vede la luce per la prima volta il 23 marzo del lontano 1987 sui canali CBS, grazie all’estro di William J. Bell e Lee P. Bell: trenta stagioni e SETTEMILACINQUECENTOQUARANTACINQUE episodi, stando all’aggiornamento Wikipedia del 17 marzo scorso. Ciò significa che mentre siamo qui a parlarne le nostre nonne sono già più aggiornate di noi sulle vicende di Brooke, Ridge e compagnia cantante.

Le nonne sono proprio la fetta di pubblico più fedele e numerosa, e non potrebbe essere altrimenti trattandosi di una soap opera: non so negli altri novantanove paesi in cui va in onda, ma in Italia prima su Rai Due e poi sulla nazionalpopolare Canale Cinque l’orario prediletto è quello del pranzo. I pargoli sono a scuola, i grandi al lavoro, i pensionati si annoiano: e cosa c’è di meglio di drammi sentimentali di dubbio gusto ad allietare la giornata? La fascia oraria spiega però solo in parte il successo di Beautiful: perché è vero che a quell’ora le televisioni di buona parte del pianeta sono accese, però c’è da dire che le soap si sprecano. Com’è possibile che la saga dei Forrester sia riuscita a battere polpettoni sudamericani, vetrine nostrane e petrolieri texani, accaparrandosi una quota di trecento milioni di spettatori e di conseguenza la palma di telenovela più vista in assoluto, oltre che trentuno Daytime Emmy Awards?

In primo luogo, la location: non dimentichiamo che la prima puntata è andata in onda all’apice degli Anni Ottanta, quando gli Stati Uniti e la West Coast erano davvero il centro del mondo. Se si mettono le vite di qualche yuppie belloccio e rampante sullo sfondo delle palme di Los Angeles, state certi che il fascino dell’esotico catturerà tutte le casalinghe disperate sperdute in qualche paesino del Wisconsin.

Il fascino dell’esotico, dicevamo, e del lusso: perché gli yuppie in questione sono proprietari di un paio di case di moda, forniscono i vestiti alle dive di Hollywood e sono naturalmente ricchi sfondati. Le casalinghe di cui sopra oltre a vivere in posti dal discutibile appeal probabilmente non hanno mai fatto shopping in posti diversi dal Walmart sotto casa: perdersi per una mezz’ora tra sete ed intrighi è sempre meglio che buttarsi sull’alcool, tutto sommato.

Eppoi, non dimentichiamo le citazioni colte: sembra un paradosso, ma i continui screzi tra le due famiglie protagoniste di Beautiful, i Forrester ed i Logan, e l’amore tormentato fra i rispettivi rampolli Ridge e Brooke non possono non ricordare i Montecchi e i Capuleti di shakespeariana memoria. D’altronde, le passioni tragiche sono un classico del cinema e della letteratura, e se il topos è uno dei pochi che è riuscito a resistere da Omero fino alle televisioni americane un motivo ci sarà.

Last but not least, i faccioni degli attori: tutti rifatti, tutti abbronzatissimi, tutti o quasi biondissimi, tutti orrendi, eppure tutti così emblematici delle aspirazioni dell’americano medio. Il cui senso estetico è evidentemente fermo ai dodici anni, perché una puntata di Beautiful sembra una sfilata grottesca di tanti Barbie e Ken. Ron Moss è forse il caso più eclatante: volto storico di Ridge e da poco rimpiazzato con Thorsten Kaye, uno che sembra la versione edulcorata di Javier Bardem, era noto per la mascella più volitiva di tutto il continente – e perché in Italia era doppiato dallo stesso che presta la voce ai documentari. Brooke Logan ha i lineamenti di Katherine Kelly Lang, che con il passare degli anni diventa sempre più ossigenata e sempre meno rugosa; e ancora, John McCook è Eric Forrester, Susan Flannery è Stephanie, Joseph Mascolo Massimo Marone, la compianta Darlene Conley l’indimenticabile Sally Spectra. E questi sono solo i più noti, perché ad elencare tutti quelli che sono passati dalle telecamere di Beautiful non basterebbe un’enciclopedia.

Già, perché la trama di questa soap è lunghissima, intricatissima e parecchio improbabile: ed è forse questa la vera forza della telenovela. Accoppiamenti che definire promiscui è un eufemismo, suocere che finiscono a letto con i generi, fratelli che si innamorano, sultani sporadici, resurrezioni, il tutto condito con il solito sassofono di sottofondo. Il cattivo gusto regna sovrano, e in casa Beautiful ne sono ben consci: al punto di diventare autoironici e di fare del trionfo del kitsch il loro marchio di fabbrica. Nessuno dotato di raziocinio può definire Beautiful una bella serie; e tuttavia, nessuno può dire di non conoscerla. Perché possiamo riempirci la bocca all’infinito di nouvelle vague, cinema d’essai e festival indipendenti; ma la verità è che ogni tanto un po’ di consapevole lobotomia diventa liberatoria. Soprattutto se dotata di humour. E allora tanti auguri, Beautiful, e cento di questi giorni – anche se visto il trend, forse sarebbe più corretto dire centomila.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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