Film

Cabaret: il re del musical tra Storia e Vita

In un’epoca in cui i musical sono tornati prepotentemente di moda, vale la pena ricordare un grande classico del genere, oggi tornato, purtroppo, attuale: Wilkommen, Bienvenue, Welcome to Cabaret. Questa pietra miliare ha molto in comune con i suoi discendenti: ha fatto incetta di Oscar, otto per la precisione, ha per protagonista la prima donna per antonomasia, ricrea scenari da sogno e canzoni indimenticabili, ma il sottofondo è tutt’altro che gioioso.

Ma andiamo con ordine: è il 1972 quando Bob Fosse, lo stesso di All That Jazz, per intenderci, e che quindi di cinema e musica un filino ne capisce, decide di prendere in mano i Racconti berlinesi di Isherwood e di raccontare al pubblico americano gli anni della Repubblica di Weimar e dell’avvento del nazismo. Materia che rischia di risultare un po’ indigesta, e allora perché non aggirare l’ostacolo dipingendo i locali fumosi, il Bauhaus, l’estro creativo che correva irrefrenabile nei bassifondi? Ladies and gentlemen, benvenuti al Kit Kat Club, dove ogni sera si smette di pensare a inflazione, povertà e confini per abbandonarsi ai peccati del Cabaret.

La protagonista, dicevamo, è una leggenda: nientemeno che Liza Minnelli, in quel periodo regina incontrastata di Hollywood, che in Cabaret è Sally, aspirante attrice che calca le scene del Kit Kat Club e che per arrotondare non disdegna di accompagnarsi a qualche cliente, meglio se facoltoso. E chi meglio di Helmut Grien, barone figlio di una Germania aristocratica, decadente e del tutto disinteressata alle vicende politiche che scaldano le strade? Mentore perfetto e di larghissime vedute, al punto di accogliere con lo stesso piacere la procace Sally ed il timido Brian (Michael York), professore inglese tanto squattrinato quanto perdutamente innamorato della ballerina, è la perfetta rappresentazione dell’Europa di quel periodo: nobile, impigrita e convinta che un gentlemen’s agreement potesse bastare a tenere insieme i pezzi. Prima che ve lo chiediate: no, questo articolo non è il pezzo di apertura dei giornali di domani – almeno, non ancora.

Cabaret è un film straordinario perché riesce a raccontare il momento più buio del secolo scorso con soavità: la crisi e la guerra imminente si percepiscono, eppure al Kit Kat Club tutto sembra lontano, irreale. Un mondo a parte, fatato e inquietante, come doveva essere passeggiare per le strade di Berlino a quei tempi. Un mondo che trova la sua sintesi più compiuta nel maestro di cerimonie del locale: il volto luciferino di Joel Grey con cerone e rossetto diventa una maschera irriverente e spaventosa, la caricatura distorta del cuore del vecchio continente negli Anni Trenta.

Last but not least, la colonna sonora, memorabile co-protagonista di Cabaret: anche in questo caso, le note sono squillanti, i testi amarognoli. Si va dal celeberrimo Wilkommen, che accoglie gli avventori del Kit Kat Club con la promessa di un’evasione impossibile, al Mein Herr, augurio di trovare un barone magico pronto a risolvere ogni difficoltà, a Money Money, l’unica cosa che fa ancora girare il mondo. E, soprattutto, If You Could See Her: dove il mattatore del Kit Kat Club porta sul palco una scimmia, e finge di esserne innamorato. Tutto divertentissimo, se non fosse che la scimmia è una metafora per indicare gli ebrei.

Cambiano i tempi, ma la storia si ripete: è questo che ci dice Cabaret, che non vuole insegnarci nulla ma che, nonostante i cori e i fuochi d’artificio, lascia con l’amaro in bocca, le folle di giovani che inneggiano all’uomo della provvidenza di turno e una Liza Minnelli ammaccata, ma che non si rassegna, perché in fondo Tomorrow Belongs To Me e chissà, maybe this time / I’ll be lucky. La stessa speranza che accomuna due ragazzi che, nonostante le loro origini e le circostanze, decidono di sposarsi.

Perché poco importa ciò che succede intorno: l’esistenza, in fondo, non è altro che un Cabaret, e allora tanto vale approfittarne. Se non avete visto questo film, non sapete cos’è il cinema – e nemmeno la vita.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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