
Candyman: se nascondi il ghetto sotto il tappeto prima o poi si vede
Ultimamente mi sto dilettando con gli horror, cosa molto molto strana per me. Difatti, come avevo già sottolineato parlando di Run, non sono una particolare cultrice del genere, causa grande fifoneria. Tuttavia, l’altro giorno mi sono imbattuta in un film che mi ha lasciata piacevolmente sorpresa: Candyman – Terrore dietro lo specchio (quand’è che noi italiani impareremo a lasciar perdere i sottotitoli…..). Si tratta di un film del 1992, e indovinate un po’? Proprio ora è uscito il sequel al cinema. Insomma, era destino. Perciò sono ovviamente andata a vederlo.
Nonostante l’originale anni ’90 mi sia piaciuto di più, devo ammettere che anche l’annata 2021 non mi è per niente dispiaciuta (parlo solo di film ovviamente, specifichiamolo). E ora vi dirò perché.
POSSIBILI SPOILER
Innanzitutto c’è ritmo, la storia scorre bene. Cosa per niente scontata. Non ci sono jumpscare a caso, non è un horror che fa paura perché ci deve spaventare. Anzi. Ciò che crediamo essere il vero “mostro” è in realtà il frutto dell’odio razziale e della sofferenza della comunità afroamericana. Le vicende si svolgono, in particolare, a Cabrini-Green, un complesso edile che è a tutti gli effetti un ghetto. Ed è proprio qui che sorge la leggenda di Candyman, che potremmo considerare come l’incarnazione di tutto ciò che le persone temevano/temono dei neri. Il risultato? Queste persone vengono “rinchiuse” in un ghetto, vengono marginalizzate e poi suscitano ancora più paura a causa della criminalità che si forma in questi posti.
Tutto questo è perfettamente riassunto da una frase detta all’inizio del film (quello nuovo). La gente crea i ghetti, poi si accorge di averli creati e li butta giù per “rimediare”. Ma anche se ci costruisci dei bei palazzi moderni sopra, nelle viscere della terra la sofferenza e il dolore rimangono. Proprio per questo credo che Candyman, al pari di Promising Young Woman per le tematiche femministe, sia un ottimo film per parlare di razzismo. Non si tratta di una pellicola pedante che ti sbatte in faccia già dai titoli di testa che questo è un film sui neri, per i neri e che per parlarne racconta le classiche storie di Martin Luther King e compagnia bella. E non è neanche un film “”razzista””/presa per il culo come invece è, a mio parere, Black Panther.
Ed è proprio per questo che Candyman funziona bene. Perché tramite la paura, tramite una figura “mostruosa” e un meccanismo orrorifico quale “se pronunci il suo nome 5 volte davanti allo specchio Candyman compare per ucciderti”, si racconta anche una storia di odio, razzismo e sofferenza.
Andando più verso la parte visiva, un elemento che ho apprezzato particolarmente è stato l’uso di simil ombre cinesi come escamotage per i flashback. Nel momento in cui vengono narrati aneddoti del primo film o storie su Candyman, vediamo queste marionette di carta che a mio parere danno quel tocco in più al film.
Inoltre, per quanto riguarda la trama, lo spettatore scopre (quasi) tutto a mano a mano con Anthony. Sentiamo la storia di Helen Lyle (protagonista del primo film) insieme a lui e ci addentriamo con lui anche nelle case deserte di Cabrini-Green. Ed è proprio qui che troviamo il punto di congiunzione tra i protagonisti dei due film. Nel primo Helen si è spinta fino in fondo alla leggenda di Candyman per la sua ricerca, diventando quasi ossessionata da Cabrini-Green e dalle sue storie. Nel secondo Anthony, artista emergente, prende ispirazione per i suoi dipinti dalle stesse identiche cose.
Tuttavia, lo spettatore ha una conoscenza in più rispetto al protagonista SE ha visto il primo film. Sappiamo infatti che Anthony non è un nome qualsiasi, ma è proprio quello del bambino che Helen aveva salvato dalle fiamme. Perciò al di qua dello schermo sappiamo benissimo come sono andate realmente le cose. Ed è proprio per questo che storciamo un po’ il naso quando vediamo/veniamo a sapere che Candyman c’è ancora, in quanto alla fine del film precedente lo avevamo visto bruciare. Scopriremo poi successivamente che la storia di Candyman si ripete e continuerà a ripetersi, proprio perché è il simbolo della sofferenza di questa comunità.
Un discorso a parte lo merita poi il finale. Ci troviamo di fronte a una sequenza fortissima, con un chiaro riferimento a Black Lives Matter. Abbiamo un poliziotto che spara a sangue freddo a Anthony tra le braccia della sua compagna, Brianna. E ciò che rende questa scena così potente è la divisione dello spazio: a destra troviamo Brianna e Anthony in una posizione simile a La Pietà di Michelangelo, e a sinistra l’ombra del poliziotto che ha sparato, di cui non viene mostrato il volto. Ne vediamo solo l’ombra, in quanto poteva essere uno qualsiasi di quei poliziotti presenti.
Questo lo capiamo, in particolare, con la scena successiva, altrettanto dolorosa poiché è il momento in cui un altro agente minaccia Brianna dicendole che se non racconterà che è stato Anthony a portare il suo collega a sparare, finirà in carcere. Ed è in questo istante che allora la ragazza evoca Candyman, ora strumento di vendetta.
Tutto questo ci colpisce nel profondo, e ci fa male soprattutto perché siamo consapevoli che questi avvenimenti sono reali, accadono tutti i giorni e non sono un brutto ricordo lontano, ma una realtà cruda e violenta. Una realtà che Candyman ci mostra in modo toccante, usando tra l’altro consapevolmente i meccanismi dell’horror. (In più il trucco di Candyman nelle scene finali, soprattutto, è davvero notevole).
Ora vi lascio e vado a guardarmi altri horror sperando di non cagarmi addosso. Adieu!