Film

Cargo – Zombie, Martin Freeman e tanto, tanto letargo

Cargo: lo zombie-movie che è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti gli sbadigli

Cargo
I tre quarti del film in un solo fotogramma

Lo confesso, questa cosa dei film originali Netflix comincia a puzzarmi parecchio: prima Death Note che è una schifezza, poi Il rituale, che insieme a The OutsiderIl gioco di Gerald e La festa delle fidanzate sono abbastanza buoni, Mute così così, Bright nah, Cloverfield Paradox boh, Annientamento meh, Il canale bah, La scoperta bleah, Rimetti a noi i nostri debiti bof. Di questo passo le produzioni originali Netflix rischiano di diventare un’infinita sequela di interiezioni.

Se volessimo rappresentare Cargo sotto forma di onomatopea la più azzeccata sarebbe di certo quella della sega che fa a fette il tronco, chiaro simbolo di chi si spara una pennica. Già perché Cargo, che parte sotto i migliori presupposti, è uno di quei film zombie moderni, che si limitano a sfruttare la figura del non-morto in modo assolutamente superficiale e sciatto, un banale sfondo a una vicenda, se possibile, ancor più piatta. Il protagonista è Martin Freeman, padre di famiglia che si trova a dover assicurare la sopravvivenza della figlia neonata in un mondo annientato dall’apocalisse zombie. Il giorno in cui lui stesso viene morso da uno zombie ha solo 48 ore per trovare qualcuno che baderà alla piccola.

Cargo
Famoli du passi

La trama, oltre a essere la più abusata del mondo, non riesce in alcun modo a regalare spunti di interesse per un personaggio sostanzialmente grigio e privo di spunti. Il film prova inutilmente a citare opere ben più ispirate come The Road di John Hillcoat (tratto dal romanzo di Cormac McCarthy) e 28 giorni dopo di Danny Boyle, senza riuscirci affatto e trascinandosi stancamente per più di un’ora e mezza, approdando a un telefonatissimo finale (intuibile dopo 15 minuti). Per arrivare in fondo senza addormentarsi lo spettatore deve ingurgitare una mezza litrata di caffè bello denso, perché altrimenti non c’è verso di resistere al richiamo del cuscino.

Come spesso accade negli ultimi tempi, l’horror diventa non più uno strumento per disturbare e scavare nella coscienza dello spettatore, ma una suppellettile da mettere in scena, una specie di lampada macabra da esibire giusto per riuscire a vendere meglio il film anche a quei quattro gonzi (come il sottoscritto) che un’occhiata ai nuovi horror in uscita ce la buttano sempre.

Eppure il presupposto iniziale non è nemmeno troppo stronzo, intendo la corsa contro il tempo per trovare qualcuno di abbastanza affidabile a cui lasciare la bambina. Se inserito nel contesto zombesco la si poteva trasformare nel classico esempio di assedio-zombie (La notte dei morti viventi, Dawn of the Dead) con scontri esistenziali all’interno del luogo chiuso, dove gli esseri umani si riconfermano i veri mostri. Invece no, i due registi Ben Howling e Yolanda Ramke preferiscono un lungo e noiosissimo peregrinare per la ridente campagna australiana, con non-morti che si vedono il minimo indispensabile e pochissime scene gore per non scandalizzare nessuno.

Consigliatissimo se nemmeno Maurizio Costanzo riesce a farvi chiudere occhio. Cargo ce la farà.

Cargo
Quello che ho dovuto fare io per rimanere sveglio

Federico Asborno

L'Asborno nasce nel 1991; le sue occupazioni principali sono scrivere, leggere, divorare film, serie, distrarsi e soprattutto parlare di sé in terza persona. La sua vera passione è un'altra però, ed è dare la sua opinione, soprattutto quando non è richiesta. Se stai leggendo accresci il suo ego, sappilo.
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