Film

Cella 211, ovvero Prison Break al gusto di paella

Quanto tempo è che ci lamentiamo con mezzo mondo? Anni, però ora ci daranno retta perché stavolta li teniamo stretti per le palle!

(Malamadre)

Nel caso foste alla ricerca di una pellicola che rifugga dai soliti lidi hollywoodiani, ormai ben poco stimolanti, una buona alternativa potrebbe trovarsi in questa interessante pellicola spagnola del 2009 diretta da Daniel Monzòn. Di chiara ambientazione carceraria, Cella 211 si apre con alcune crudissime sequenze che danno la giusta dimensione della portata emozionale di quell’ora e quaranta di proiezione, fitta di colpi di scena, che scorrerà davanti ai nostri occhi da lì in poi.

Trama

Juan Oliver (Alberto Ammann) è un giovane ligio al dovere che, per dare una buona impressione al carcere dove ha appena trovato lavoro come secondino, decide di presentarsi con un giorno d’anticipo sul primo turno di guardia. Durante la visita al braccio di massima sicurezza, il carismatico detenuto Malamadre (Luis Tosar) decide di organizzare una rivolta nella quale si trova involontariamente coinvolto lo stesso Juan. Ora al nuovo arrivato non resta che improvvisarsi credibile galeotto per riuscire a salvare la pelle e riabbracciare la moglie al sesto mese di gravidanza.

“Non fidarti mai di nessuno e non scordarti mai da che parte stai”

Cella 211 è un film molto equilibrato. Pur giocando con un impianto da action, il regista Daniel Monzòn evita il testosterone facile e dosa con sapienza i momenti in cui è necessario virare nel sanguinolento, sfornando una pellicola sfaccettata, in cui personaggi e situazioni corrono sempre sul filo del rasoio che separa il bene dal male. Polizia e secondini agiscono con una violenza non certo seconda a quella dei brutali criminali tenuti al fresco; mentre i carcerati, pur nella loro totale amoralità, non riescono a celare un barlume di umanità che sfocia nella bontà d’animo.

Persino il protagonista stesso, apparentemente bidimensionale, è in perenne bilico tra forte rigore morale e feroci pulsioni vendicative, e questo non può che insinuare nello spettatore un avvincente disorientamento emotivo che lo porta ad avere difficoltà nel decidere per quale delle due forze in gioco parteggiare. Si subirà il fascino perverso dei criminali alla stessa maniera della repulsione che ci provocheranno coloro che millantano di “garantire” l’ordine, ma anche il contrario di tutto questo. Ed è qui la vera forza di Cella 211.

Intrattenimento curato e denuncia sociale graffiante

Lineare e avvincente nella sua progressione, ma complesso in alcuni suoi risvolti, Cella 211 tocca i temi della disumanizzazione all’interno delle carceri, della giustizia inquinata e della legittimità della violenza, iniettando nel tutto una dose sufficiente di ambiguità da evitare implicazioni banali o accuse di moralismo. Al pregevole risultato finale non sono estranei un buon lavoro di scenografia e regia, l’una capace di proiettare davvero lo spettatore nel mondo narratoci da Monzòn, l’altra dispensatrice di più di una sequenza visivamente potente e spesso indimenticabile.

Gli interpreti, pur misurandosi con personaggi che necessitavano di una gran dose di grinta emotiva, sono energici ma equilibrati, e malgrado la violenza di alcuni momenti, non vanno mai sopra le righe. Peccato per alcune piccole forzature di sceneggiatura e, soprattutto, per la brutta fotografia, piatta e senza sfumature, che dà al 90% delle scene una sgradevole sensazione di telenovela iberica smarmellata, perché tutto il resto merita considerazione.

Riccardo Antoniazzi

Classe 1996. Studente di lettere moderne a tempo perso con il gusto per tutto ciò che è macabro. Tenta di trasformare la sua passione per la scrittura e per il cinema in professione.
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