
C’era una volta il Western: Per un pugno di dollari
Il western di Sergio Leone è come era Leone stesso.
Diretto, asciutto, di poche parole, senza fronzoli. Lunghe pause, molti silenzi.
Nel cinema di Leone la semplicità è la chiave di tutto. Negli anni ’60 il western era un genere ancora popolare, di massa, anche se in declino. Nel 1964 Leone prende ispirazione da un film giapponese, La sfida del samurai di Akira Kurosawa e decide di girarne uno. Finirà per ridare nuova vita al genere.
Per un pugno di dollari è un film grandioso. Il primo di una trilogia, la “Trilogia del dollaro”, altrettanto straordinaria: Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966). Provate pure a cercare altri registi che in tre anni abbiano sfornato tre film così.
I western di Leone sono assolutamente riconoscibili. Hanno dei marchi di fabbrica ben precisi. Sono film rivolti al grande pubblico ma dal budget contenuto. Film semplici, è vero, ma con una cura maniacale dei dettagli, della singola inquadratura. Si passa dai grandi paesaggi ai primissimi piani sugli sguardi. Nulla di quello che vediamo sullo schermo è stato lasciato al caso. Ma neppure quello che si sente. E allora quelle sigle memorabili, le colonne sonore del maestro Ennio Morricone ed i fischi di Alessandro Alessandroni.
Ma stavamo dicendo: nel ’64 Leone è un promettente regista che ha fatto una discreta gavetta e vuole girare il suo primo western. Gli serve un protagonista: prova ad ingaggiare due big dell’epoca, Henry Fonda e Charles Bronson. Nulla da fare, nessuno credeva seriamente nel progetto. Anzi, i due chiedono ai produttori degli ingaggi stellari appositamente per non essere presi in considerazione. Poi prova con James Coburn e con Cliff Robertson. Niente da fare. Gli segnalano allora un giovane attore che aveva da poco lavorato in una serie tv statunitense, Rawhide. Leone accetta di fargli un provino. Gli mette addosso un poncho ed un sigaro in bocca. Affare fatto: il ragazzo costa poco, ma c’è di più. È di poche parole e sembra molto, molto pigro e lento. Ma quando comincia l’azione, gli scatta qualcosa dentro e si prende la scena. Inizia così, da quinta scelta, la carriera di Clint Eastwood.
Cerchiamo di capirci. Eastwood per diverso tempo è stato considerato come una specie di Derek Zoolander del cinema. Si diceva che avesse due espressioni: una col sigaro, una senza. Se la pensate così, chiudete tutto, siete brutte persone e non ho intenzione di conoscervi. Magari all’epoca gli standard erano un pelo più alti, ma insomma: avercene di attori cani così.
Il western di Leone, dicevamo, è semplice, perché deve arrivare al grande pubblico. Ma la semplicità non è banalità. Semplice qui vuol dire che tutto è assolutamente chiaro. I buoni sono buoni, i cattivi sono cattivi. Cattivi senza possibilità di sbagliarsi. Niente menate, zero compromessi.
Va bene, l’eroe Leone lo aveva trovato. Serviva un villain all’altezza, qualcuno che tenesse testa al carisma del protagonista. Anche qui il casting è difficile. Leone recupera dal teatro Gian Maria Volontè. Ammesso che certe classifiche abbiano un senso, è probabilmente il miglior attore italiano di sempre. Volontè costava ancora meno di Eastwood. Per capire quale fosse la fiducia riposta in questo film, ecco cosa ne pensava lo stesso attore (perdonate il penoso copia/incolla da Wikipedia):
« Sto facendo un filmetto in fretta e furia per pagare i debiti del Vicario (pièce teatrale da lui prodotta e interpretata finita sul lastrico); figuratevi che è un western italiano, e si intitola Per un pugno di dollari. Lo faccio veramente per un pugno di dollari, ma certo non può nuocere alla mia carriera. Sono irriconoscibile, e nei titoli di testa avrò persino uno pseudonimo americano, John Wells. Insomma, non corro alcun rischio. Chi volete che vada a vederlo? »
In breve: Joe, che poi sarebbe Eastwood, arriva a San Miguel, un paese che odora di morte. Un paese dove tutto o è morto o è lì lì per passare a miglior vita. L’unica legge ammessa è quella della pistola. L’unico business legale che funziona è quello del cassamortaro.
Devo ancora trovare un posto dove non ci siano padroni dice Clint, e ha ragione. A San Miguel ne trova due. Due famiglie in lotta per il contrabbando di armi e alcool. I Rojo gestiscono alcool, i Baxter le armi. Hanno messo in piedi due eserciti arruolando un pugno di disperati al di qua ed al di là della frontiera. I Rojo sono in tre. Tre fratelli. Uno stupido, uno meno e poi c’è Ramon (Volontè). Ramon è l’uomo con il fucile.
Joe sa che fra i due litiganti il terzo può avere interessanti prospettive di guadagno. Inizia così il suo gioco, vendendo a turno la sua pistola ai Baxter ed ai Rojo.
Da qui in poi il film decolla, con tutti i pregi di cui abbiamo già parlato. Ma c’è di più. Qualcosa che per me fa davvero la differenza. Sono i momenti-fomento. Pochi, ma piazzati lì dove dovrebbero stare. Il momento-fomento è quello dove chi guarda il film subisce insieme all’eroe. Incassiamo i colpi tutti insieme come Rocky (altra pietra angolare del cinema fomentatore) fino a quando non se ne può più. E parte la musica. È vero, è il canovaccio più vecchio del mondo, è vero, ormai lo abbiamo visto in centinaia di altri film. Ma finiamo lo stesso per crederci tantissimo.
Tipo qui. Se non avete visto il film non guardate. Ma no, non è vero, guardate lo stesso. Ammirate il capolavoro.
https://www.youtube.com/watch?v=CSWw0CfgDgw
Serve dire altro? Per un pugno di dollari è un film straordinario, un’icona del cinema mondiale. Boh, trovate voi degli aggettivi, a me sembrano tutti banali. Nessuno gli avrebbe dato un centesimo, e invece. Rimane il sapore della polvere in gola ed il sudore sulla fronte. Sudano tutti, sudano tantissimo. E continueranno a sudare tantissimo anche nel secondo capitolo della trilogia. Ma questa, come dicono quelli bravi, è un’altra storia.