Film

Cesare deve morire: il cinema come testimone

Dal 2002, nella Casa Circondariale di Rebibbia, il Centro Studi Enrico Maria Salerno è impegnato nella realizzazione di progetti culturali rivolti alla popolazione carceraria.

Fabio Cavalli, regista teatrale, dirige un laboratorio teatrale nel Reparto G12 di Alta Sicurezza, che accoglie detenuti condannati per gravi reati associativi e considerati socialmente pericolosi i quali formano la compagnia teatrale Liberi Artisti Associati.

Vi starete chiedendo: Ecchecc’azzecca questo cor cinema?

Sempre che siate persone aperte all’idea che dei detenuti possano avere la possibilità di crescere e cambiare attraverso la pratica teatrale fino alla riabilitazione e rieducazione, risponderò subito alla domanda. Se così non fosse… vi chiedo di chiudere l’articolo in questo momento. Vorrei evitare commenti cattivi e superficiali su questo tema importante: inquinerebbero l’aria peggio dei gas di scarico.

paolo-e-vittorio-tavianiProprio su questa realtà nel carcere di Rebibbia, i fratelli Taviani nel 2012 hanno deciso di girare un film. Il risultato è stato un lavoro che rende molto più chiara al pubblico la visione di tale esperienza.

Cesare deve morire, penultimo lavoro dei fratelli Taviani, vede come protagonisti proprio i detenuti della sezione di Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Rebibbia a Roma ed è interamente girato all’interno delle mura carcerarie. Film pluripremiato (Orso d’oro al Festival di Berlino e ben cinque David di Donatello) ben  accolto dalla critica nazionale e internazionale per le tematiche, il messaggio e la realizzazione.

cesare-deve-morire-2012-taviani-02Anche se può sembrarlo, dire che Cesare deve morire appartiene al  genere “documentario” sarebbe sminuirlo, oltre non corrispondere alla verità. C’è una forza nascosta in questo film e un messaggio che viene urlato dal silenzio nelle celle dei protagonisti.

La trama parte dalla vita quotidiana di questi uomini reclusi: i detenuti della sezione di Alta Sicurezza si prestano assieme al regista Fabio Cavalli a mettere in scena il Giulio Cesare di William Shakespeare recitando ognuno nel proprio dialetto d’origine. Dai provini per l’assegnazione dei ruoli allo studio del copione nelle proprie celle, dalle prove in giro per gli spazi del carcere allo spettacolo di fronte al pubblico esterno dei liberi. I volti dei detenuti trasudano paura e tensione e in ogni fase del lavoro che viene mostrata la finzione e la realtà, battuta dopo battuta, sembrano mischiarsi portando disagio negli attori che cominciano a sentirsi molto simili ai personaggi che interpretano a causa del loro passato

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Fabio Cavalli, responsabile del progetto del teatro in carcere a Rebibbia dice che per «ogni atto creativo è fondamentale, da sempre, autoanalisi e autobiografia» e questo è quello che emerge in ogni singolo fotogramma per diversi motivi.

In primo luogo il testo shakespeariano è portato a un linguaggio più vicino ad ogni detenuto, usando ciascuno, come ho già detto, il proprio dialetto d’origine per esprimersi. In secondo luogo, i ruoli sono assegnati in base alle caratteristiche di ognuno e viene fatto un lungo lavoro per dare al personaggio un propria impronta, per far emergere la verità, la vera persona. Attore e personaggio si mescolano facilmente, perché l’attore-detenuto, anche spinto dallo stesso Cavalli, trova le tante sfaccettature del personaggio sembrano specchi che riflettono la propria immagine. Attingere alla storia personale e ai ricordi è automatico, perché il personaggio sembra parlare direttamente all’Io nascosto di ognuno.

Tra i momenti culminanti troviamo l’ultima battuta di Cassio (Cosimo Rega) prima di suicidarsi, che è una chiara analogia con la condizione di un recluso che trova libertà nell’esprimersi sopra un palcoscenico:

Silenzio! Per questo nostro addio chiedo silenzio! Tutta la libertà ho rischiato in una sola battaglia, e l’ho perduta. Un giorno come oggi ho respirato per la prima volta. Ora che il tempo mio è finito lo finirò senza nulla rimpiangere, per ritornare là dove ogni cosa è cominciata.

E a fine rappresentazione, ritornando nel silenzio angosciante della sua cella, proprio Cosimo Rega, conclude il film dicendo:

Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione.

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Lo stesso attore-detenuto racconta in un’intervista «Il teatro è terapia. È una grande verità. Per noi è un bene immenso. E la cosa più importante è che ci fa riflettere. Purtroppo si fanno delle cose che uno, senza illudersi, comincia a crederci e poi si trova le solite sbarre davanti. Forse è anche giusto così, perché magari hai commesso degli sbagli. Ma questa terapia comincia a far male quando è fatta bene. Quindi ci troviamo in una situazione di transito. […] Noi, restando coi piedi per terra, la notte dormiamo un’ora più tardi perché abbiamo paura di sognare. Penso che il teatro faccia bene.»

Questa è la dimostrazione che questo tipo di ricerca non porta rinnovamento solo in ambito teatrale, ma anche in ambito sociale, perché in questo modo il teatro si conferma come uno strumento per la rieducazione, in questo caso del detenuto.

Dove sta il cinema in questo quadretto? Con Cesare deve morire sta proprio in mezzo: è l’occhio che osserva, è la mente che registra e racconta, è il ponte che porta al pubblico dei liberi un messaggio di speranza, è un testimone che urla: è ancora possibile credere nell’uomo!

Federico Luciani

Nasce nel 1990. Sette anni più tardi s'innamora del teatro e da allora sono fidanzati ufficialmente. Laureato al DAMS di Bologna e impegnato nel teatro sociale da diverso tempo. Quando non scrive, divora film di ogni genere. Dylan Dog come eroe, Samuel Beckett come mentore, Woody Allen come esempio e Robin Williams come mito.
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