Sono nata nel 1986.
Il che significa che “Chernobyl” ha rappresentato una parola ricorrente nella mia vita fin dai suoi inizi. I racconti dei miei, sbalorditi per l’aver aver atteso tanto ad avere un figlio ed essere incappati con precisione chirurgica nell’anno peggiore per farlo. Lo stato di psicosi del nord Italia, investito dalla nube. La corsa a procacciarsi cibo inscatolato prima del 26 aprile. Le narrazioni tragicomiche riguardanti gatti a cui venivano lavate le zampette a ogni rientro dal giardino. Gente che ha smesso di mangiare latticini, di uscire con la pioggia. E poi ancora: negli anni successivi, la spada di Damocle sempre incombente.
Qualunque problema di salute o malformazione capitata a me o ai miei coetanei – dito in più, dito in meno, sviluppo precoce, ossa che crescevano troppo o troppo veloci, problemi alla tiroide, o casi anche peggiori -, quella frase aleggiava sempre: “Potrebbe essere stata colpa di Chernobyl”. La diagnosi che ti faceva anche l’ultimo dei parenti, ma che pure i luminari di medicina non scartavano mai.
Chernobyl.
Nella mente di noi nati dalla sua costola questa parola evocava una sorta di fiaba horror 2.0, un’entità minacciosa degna di Lovecraft, contro cui non ci si poteva illudere di alzare muri, o armi da fuoco: se voleva colpirti, non c’era niente che la fermasse. Da nome della località in cui esplose il reattore – peraltro, neanche la più vicina: sappiamo ormai che il paese dove si trovava la centrale era tutt’altro, Pryp”jat’ – questa parola si era estesa fino a comprendere tutto il concetto, sino a inglobare quel Mostro. Del resto, diciamocelo: “Chernobyl” è un nome adatto per un demone infernale. Accanto a “Cerbero” o “Caronte” farebbe la sua porca figura.
Solo che questo demone non aveva bisogno di un aspetto spaventoso, anzi, era la sua invisibilità a terrorizzarti, come ne La cosa di Carpenter: ti dicevano che ti attraversava e ti trasformava dall’interno. Quando te ne accorgevi, era ormai troppo tardi. Un contrappasso favoloso per noi esseri umani, visto che eravamo stati proprio noi a generarlo.
Non c’è film horror che possa superare la realtà.
È un mantra che ci ripetiamo spesso. Ma è uno dei primi pensieri che salta in testa, vedendo la serie Chernobyl prodotta quest’anno da HBO, 5 episodi che sono una mazzata seguita a ruota da una stilettata nel ventre.
Quando li ho visti, innanzitutto, la mia sensazione iniziale è stata molto simile a quella che provai per una pellicola del tutto diversa, Sulla mia pelle sugli ultimi giorni di Stefano Cucchi. Ovvero: puoi conoscere bene un fatto di cronaca, anche nei dettagli, puoi averne sentito parlare per anni in mille modi diversi, eppure l’arte ha il potere di avvicinarti ai fatti come nessun resoconto giornalistico può. L’arte non si limita a raccontare gli eventi: comunica lo spirito di quegli eventi, lo stato d’animo, le emozioni, fa sì che quel dolore diventi il tuo dolore. Il cinema ha molti modi per avvicinarsi allo spettatore al punto da potergli dare uno schiaffo in faccia. La serie Chernobyl lo fa, per esempio, anche usando l’audio al posto della vista: la “colonna sonora” impiega in diverse scene suoni sgradevoli, disturbanti per l’orecchio, proprio mentre i personaggi più si avvicinano alle radiazioni. Così, mentre i loro corpi sono idealmente attraversati da quell’attacco invisibile, noi veniamo ugualmente attraversati da quella “musica” che si fa interferenza elettrica sempre più insopportabile.
5 sensi.
A rendere geniale questa serie è proprio la scelta di impiegare tutti i sensi dello spettatore anziché fare semplice ricorso a scene crude e d’impatto, di modo che ci si senta, a ogni fine episodio, non carichi di paura e orrore, piuttosto “scavati” dagli stessi. La fotografia, per esempio, sfrutta toni freddi, sfumature metalliche, spesso colori chimici e innaturali: certe inquadrature sono da incorniciare, ed eppure non vi è particolare compiacimento estetico. La volontà è quella di non distrarre l’attenzione da ciò che deve restare al centro – l’esatto contrario di ciò che fa il mondo dove la storia è immersa, intriso di ipocrisia e depistaggi.
La serie si prende molto tempo per raccontare il punto di vista degli inconsapevoli, vittime due volte: dell’evento, già di per sé errore umano, e dell’incapacità di gestirlo. Di fronte a certi avvenimenti, l’umanità responsabile è come un bambino che gioca alla guerra: rompe i suoi stessi giocattoli per incuria e poi nasconde i cocci sotto il letto perché nessuno possa dire che è stato cattivo. Ed è a questo tipo di autorità che i cittadini affidano la propria sicurezza.
Non ci sono eroi.
Solo individui che, a tentoni, cercano di salvare il salvabile. Perché l'”arrivano i nostri” non è possibile: viviamo nel mondo reale quel tanto che basta da sapere che il buco di Chernobyl è ancora lì, in Ucraina, tenuto a malapena a bada da un grossolano guscio protettivo, e resterà lì quando noi nati nel 1986 non ci saremo più, forse sarà ancora lì quando il genere umano stesso non esisterà più – o, nella migliore delle ipotesi, si sarà trasferito su un altro pianeta dopo aver finito di consumare questo. Avremo lasciato ciò a memoria di noi sulla Terra: architetture, opere d’arte, un mucchio di plastica e un buco radioattivo nel centro del territorio europeo.
Chissà che idea si faranno di noi gli alieni, o la specie che, forse, prenderà il nostro posto.
Gli attori.
Il punto di vista nella serie, dicevo, rimbalza tra singole figure, alcune delle quali si adoperano per far sì che la catastrofe non diventi una “catastrofe plus plus”. In pratica, quelli da ringraziare per il fatto che stiamo ancora qui bene o male a pestare forsennati su una tastiera con le nostre svelte mani palmate (inside joke).
Il primo è Valerij Legasov, interpretato da Jared Harris. Figura reale di scienziato che si adoperò strenuamente per contrastare il danno e che nonostante questo visse – solo due anni – nel rimorso di non aver affrontato abbastanza il proprio governo.
Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), colui che guidò la commissione governativa a Chernobyl. Ebbe il ruolo chiave di supportare la posizione di Legasov, di fatto contribuendo a sostenere le procedure efficaci ad arginare la calamità. Come lui, sopravvisse pochi anni al disastro.
Infine, Ulana Khomyuk impersonata da Emily Watson (che con Skarsgård aveva già lavorato più di vent’anni fa sul set di Le onde del destino, il film bello peso che lanciò la carriera registica di Lars von Trier), studiosa del nucleare che tempestivamente raccoglie la testimonianza degli operai presenti al momento dell’esplosione del reattore, uomini destinati a morire nel giro di pochi giorni.
Una triade di figure che, pur rappresentando il lato umano e la bilancia morale della narrazione, commettono errori e non sono esenti da responsabilità. Non c’è la visione “hollywoodiana” di un salvataggio risolutivo: qua ogni uomo e ogni donna sono messi di fronte soltanto alla propria inettitudine.
La serie HBO.
È probabile che Chernobyl avrà candidature agli Emmy – ha ricevuto persino l’endorsment di George R. R. Martin, che a quanto pare ha ottime ragioni per non tifare la serie tratta dai suoi libri, Game of Thrones – e spero vivamente che sia l’occasione di premiare Jared Harris, un attore che tante volte ha dimostrato, nelle retrovie (si fa per dire), il suo talento: Mad Men, The Crown, Sherlock Holmes – Gioco di ombre, per citare solo le sue apparizioni più mainstream.
Uno dei pochissimi “figli d’arte” che, pur con un pesantissimo termine di confronto, riesce a fartelo dimenticare nell’istante stesso in cui appare in scena.
Le serie come Chernobyl fanno bene a tutti: ci impediscono di cullarci nelle amnesie collettive, in un’epoca in cui è molto facile accantonare la storia e seppellire gli errori del genere umano sotto un tappeto (letteralmente, in questo caso), per provare a ripeterli e illudersi di ottenere, stavolta, un risultato diverso. Ci ricordano, scuotendoci dal torpore, che non esiste un guscio di piombo abbastanza spesso da impedire che ci uccidiamo da soli – uno tra i tanti talenti naturali dell’essere umano, e senza che si impegni particolarmente: pare venga abbastanza naturale.
I dinosauri sono estinti per un meteorite? Dilettanti. Scommetto che noi riusciamo a costruire un meteorite più grosso.