
Chiamami col tuo nome è la scatola da cucito della nonna con dentro i biscotti
Se mi avessero detto che avrei scritto una recensione di Chiamami col tuo nome non ci avrei creduto. Temevo che il film fosse troppo lontano dalle mie corde, che l’ombra malefica del moralismo inghiottisse tutto, che la mia omofob… NO. Pensavate, eh? Col cazzo (in tutti i sensi). Ok, mi sto rendendo conto che scrivere questo articolo sarà come fare i 100 metri stile libero in una vasca di squali. Con le emorroidi però. Che sono sempre nell’ano e… va bene, la smetto. Chiedo scusa, è che sono a mio agio con il politicamente corretto come la Boschi quando si parla di banche.
Dicevo, avevo molta paura che Chiamami col tuo nome non mi sarebbe piaciuto. E? No, niente, sono ore che ripeto ossessivamente “is it a video?” guardando il vuoto.
Quindi, per i valorosi che ancora non hanno chiuso l’articolo e chiamato Carabinieri, Digos, Ros e Nas per farmi la pelle credendomi uno di quelli che “difendi la famiglia tradizionale” (tranquilli, sono solo un idiota che adora fare ironia scanzonata su tutto) andiamo a vedere perché Guadagnino è un maledetto genio che ha tirato su un film così bello.
La recensione potrebbe contenere tracce di spoilerz a guscio.
Però da dove comincio? L’incipit che a un occhio poco attento risulta una roba tipo “non sono razzista, ma…” l’ho fatto, e ora? Perché Chiamami col tuo nome fa proprio così, ti prende alla larga, come una mosca che ti ronza attorno, che provi a scacciare prima distrattamente, poi con insistenza, fino a lasciarla camminare sulla tua camicia in bianco e nero quando la vita ti si carbonizza sugli occhi.
Chiamami col tuo nome ti inserisce nell’estate più bella per un adolescente. Quella fatta di una casa pazzesca in campagna, di nuotate, di amiche fighe (la tipa lì, Marzia, mi ha causato diversi scompensi, aveva un quid notevole), di avventure e di crescita. Ah, già, con l’amore (che strappa i capelli) dietro l’angolo, pronto a spezzarti le gambe a sprangate e lasciarti lì, agonizzante. Perché se vogliamo ridurre ai minimi termini il film di questo parla: di esperienze. Sì, ma di chi?
Di Elio, un Timothée Chalamet fastidiosamente bravo. 17 anni, faccia da schiaffi, intelligenza molto sopra la media. E balla pure bene, il maledetto. In casa con i suoi (il padre è professore universitario) arriva però il dottorando Oliver, statuario americano interpretato da un perfetto Armie Hammer (candidatura per lui no, eh?). Anche perché io gli voglio bene dai tempi in cui faceva il figlio del diavolo in Reaper, quindi ci sono affezionato. Dicevo: l’incontro sconvolge tutto, sblocca un lento ingranaggio nervoso nella mente di Elio, che inizia a dubitare della sua incertezza, tramutandola pian piano in attrazione primordiale, poi in sentimento puro.
Oliver però è più grande, più inserito socialmente, meno avvezzo al rischio. È lì, granitico. Sta. Quindi Elio gli scatta attorno, sfiorandolo prima con la mente e poi con il corpo, chiedendosi quanto possa spingersi, se possa spingersi, soprattutto. Chiamami col tuo nome racchiude in due ore, con tutte le sue sfaccettature, il concetto ultimo di amore estivo: quello a cui menti senza sapere di farlo, quello dove sei davvero convinto che sarete voi due contro il mondo finché la vita tira il filo dell’aquilone perché il calore dello Scirocco ha smesso di gonfiarti le gote. Elio è come noi, vittima e boia, si scuce il cuore dal petto pensando di poterlo donare tutto, capendo tardi a chi e in quale misura. Lui vuole essere l’eccezione, non la regola. Sarà entrambe, capovolto in un processo di formazione capace di sconquassarti le membra quando tutto attorno a te sembra solo dirti: andrà bene.
Perché lo splendido lavoro di Guadagnino sugli spazi e gli ambienti è sublime. Chiamami col tuo nome pennella una Lombardia incantevole in cui perdersi, traslata in un passato non troppo lontano capace di scaturire nostalgia (non sempre canaglia) con piccoli dettagli di sottofondo (un programma tv, un’insegna, un manifesto). Elio e Oliver si lasciano inghiottire dalla natura come un frutto appena colto, tra acque gelide e squarci di sole, tornando a bisogni e sentimenti così primari che solo i gesti possono esprimere, appena colti da movenze scattanti, ferine, incerte.
E Guadagnino immortala tutto con una regia di rara bellezza (anche qui, candidatura figuriamoci, eh?). Le sue inquadrature sono come piccole fotografie accese di sbiadito, ritagli di un giornale appesi alle pareti, spiragli attraverso i quali scoprire la vita. C’è tanto: Bertolucci, un certo Antonioni, Mike Nichols. (In realtà io ho visto un delicatissimo omaggio a La donna che visse due volte, nell’inquadratura stretta di Elio e Marzia che salgono in soffitta la prima volta, ma quello perché prima del film avevo dimenticato le pastiglie). È tutto curato, come un portagioie pieno di ninnoli oblunghi e colorati che abbonda nelle case anziane, con gli anelli in argento opaco e drappi di seta spezzettati.
E noi? Vorremmo soltanto un sorso di quel succo di pesca, una frittella, il vento sulla faccia in bici, tutti elementi effimeri, senza rendercene conto. Oliver è così granitico da non permettere a Elio di accorgersi che, nell’esatto istante in cui lo tocca, gli si sta già sgretolando fra le mani. Ma a noi non importa, vogliamo ingozzarci d’amore, falciandoci l’anima come grano sotto la scure.
Perché Chiamami col tuo nome fa così, ti prepara al cucchiaio ghiacciato nel cuore ammantandolo di miele (facendo contento Lucrezio, per restare in tema di iconografie classiche). La sceneggiatura di James Ivory si combina alla perfezione con Guadagnino, creando momenti di tragica dolcezza (la passeggiata e la danza sotto la chiesa; la notte in albergo con il sonoro del treno che spacca il mondo, una scena da applausi). Per arrivare lì, lì dove sapevamo che il mostro ci stava aspettando. Il treno porta sempre via qualcuno, il fischio del controllore fa irrompere la realtà e noi ci stringiamo in quell’abbraccio, aggrappandoci con le unghie come se da quell’attimo dipendesse tutto il nostro essere, perché altro non possiamo fare.
E quindi? Quindi arriva l’inaspettata dolcezza di un padre a spiegarci tutto. Senza moralismi, senza sovrastrutture, senza distinzioni di alcun tipo (soprattutto e per fortuna). Il dolore va nutrito, perché l’apatia non è un’opzione. Arriverà anche quella, sottile e silenziosa, quindi bisogna farsi tutto il male possibile: abbiamo una sola vita, un solo corpo, (forse) una sola anima.
Il traino emotivo è talmente forte che tutto è perdonabile (la coppia di amici gay buttata un po’ a casaccio, la frase pacchiana e populista su Mussolini appesa lì senza motivo nell’economia del film, il padre guarda caso represso che sa esattamente cosa prova il figlio). Ma fanculo, siamo così avvolti dal rapporto Elioliver (per restare in tema) che sticazzi delle piccolezze di Chiamami col tuo nome (ma io sono un cacaminchia provetto e dovevo tirarle fuori).
Ed eccoci al finale. Uno di quei momenti in cui si creano icone, seppur piccole, a brandelli, sbranate dalla vita. Il fuoco che ti crepita sugli occhi, la neve fuori, indifferente come una tavola apparecchiata con quotidiana prassi. Ma quello che provi dentro non ha un cazzo di quotidiano. Chalamet GIGANTEGGIA con il suo dolore, racchiuso in due occhi divorati, che si mangiano tutta la sala. Titoli di coda finiti. “Is it a video?”.
Bene, un’ultima cosa, poi prometto di tornare a dire “cacarella” e ridere da solo. Andate a vedere Chiamami col tuo nome. Ripensate alla persona della quale vi siete innamorati quell’estate di tanti anni fa. Se avete voglia scrivetele, anche solo per chiederle come va. Perché probabilmente l’avrete fatta soffrire come un cane, ma lei resterà sempre una piccola scheggia nel vostro cuore. E, forse, anche voi nel suo.
Ah, perdonatevi. O, almeno, fate un tentativo.