Film

Cold War: quindici anni di Europa per raccontare un amore

Lo ammetto: il motivo principale che mi ha spinto ad andare al cinema è che qualcuno aveva paragonato Cold War a La La Land, che all’incirca un anno fa era riuscito a incollarmi allo schermo e risvegliare nelle mie viscere un lato sentimentale che nemmeno pensavo di avere. In più, dietro alla macchina da presa c’è Pawel Pawlikowski: forse questo accrocchio di consonanti vi dirà poco, ma il regista polacco si è già portato a casa un Oscar con Ida, e con Cold War si è accaparrato il premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 2018, più svariati altri agli European Film Awards. Infine, dalla locandina si intuiva un elegantissimo bianco e nero, ormai diventato cifra stilistica dell’autore.

Ebbene: per prima cosa, Cold War e La La Land sono agli antipodi. Una raffinata scala di grigi contro un’esplosione di colori, musiche tradizionali dell’Est Europa con qualche accenno di jazz contro un miscuglio irrefrenabile di note, Vecchio Mondo contro Nuovo, guerra contro pace. E soprattutto: in La La Land i protagonisti, almeno all’inizio, sono pieni di speranze sia per sé che per il futuro; in Cold War, il dramma si respira fin dal primo bacio. Una cosa in comune però in effetti c’è: sono entrambi dei gran film.

Polonia, 1949: una compagnia di teatranti recluta Zula, la bellissima Joanna Julig, per cantare e ballare motivi popolari, la quale fin da subito dimostra di avere carattere – è stata in prigione per aver accoltellato il padre che aveva tentato di abusare di lei, tanto per dirne una. Il tenebroso direttore del coro Wiktor (Tomasz Kot) naturalmente la nota, e tra i due, quasi fosse scritto dalle origini, nasce un grande amore, tormentato fin dalle prime battute: lei rivela di essere una spia del direttore amministrativo (Boris Szyc), che ha forti legami con il Partito. Ma la loro storia continua, almeno fino all’esibizione a Berlino Est nel 1952: lui sconfina, lei non ha il coraggio di seguirlo.

Passano gli anni, cambiano le musiche, almeno nella parte occidentale del mondo: Parigi, jazz, locali fumosi e appartamenti zeppi di sedicenti artisti e relative opere. Zula riesce a raggiungere Wiktor, le esistenze di entrambi sono andate avanti, ma la passione che li lega è la stessa. Tuttavia, non sempre passione e vita vanno d’accordo: i muri peggiori sono quelli psicologici, e diventano via via che la loro relazione assume una parvenza di quotidianità sempre più alti. Ancora Polonia, prima lei e poi lui, fino al 1964: campi di rieducazione, salvataggi pagati a caro prezzo, fino ad un “per sempre” ineluttabile.

La Cold War che dà il titolo al film è quella che fa da sfondo, certo, ma anche quella, silenziosa ed eterna, che scorre tra i due protagonisti, loro malgrado e senza che la loro volontà possa nulla. Entrambe sono dipinte in modo magistrale: i campi poetici e desolati dell’Europa orientale, il faccione di Stalin che troneggia dietro alle orchestre, la Berlino ovest appena intravista e già scintillante, la Parigi bohémienne affascinante e spietata da un lato; gli sguardi limpidi e duri di Zula, quelli tragici e innamorati di Wiktor dall’altro. Il bianco e nero iper contrastato e il formato quadrato scelti da Pawlikowski incorniciano i due, lasciando fuori tutto il resto. In sottofondo, canti popolari che con il passare degli anni e dei confini si riversano nel jazz. Il mondo va avanti, i due amanti no. Cold War è un affresco magistrale di quindici anni di Europa, di quindici anni di storia, di quindici anni di amore.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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