
Come Dio comanda, altrimenti detto: sì, anche questa volta è meglio il libro
Non appartengo alla categoria di cagacazzi che con saggezza fasulla osserva che “il libro è sempre meglio del film”: non è assolutamente vero ed è impossibile generalizzare. Intanto, perché anche il regista è un autore e anche se sceglie di adattare un romanzo, ha una sua linea stilistica e quindi è naturale che metterà molto del suo nel prodotto. Si danno casi di film molto aderenti al libro di partenza – vedi, fra i tanti, Non ti muovere di Sergio Castellitto, che non ha praticamente variazioni nei dialoghi e nelle situazioni rispetto al romanzo della moglie Margaret Mazzantini – e casi in cui il film prende solo spunto dal libro per poi produrre qualcosa di completamente diverso – si pensi banalmente a tutta la produzione di Stanley Kubrick. La fedeltà, di per sé, non necessariamente un fattore di qualità del film: tra gli Harry Potter il meno fedele al libro originale, Il prigioniero di Azkaban, è secondo me (e J.K. Rowling) il più bello e quello che funziona di più in modo autonomo. Aver eliminato scene che ci piacciono del libro e aver “aggiunto cose che non c’erano”, non basta, di per sé, a rendere brutto un adattamento.
Per cui tagliamo la testa al toro: ci sono tanti fattori da valutare prima di mettere a paragone un libro e il film tratto.
Però. Poi ci sono casi in cui tutte le certezze vengono smontate e accade l’impensato: ovvero che aver letto il libro in effetti condizioni inevitabilmente la visione del film.
Come Dio comanda (2008), di Gabriele Salvatores, è un buon film. Non il suo migliore, ma si regge sulle sue gambe, è ben diretto e ben interpretato. Manca forse un po’ di ritmo, il che si avverte in un prodotto che vorrebbe essere un thriller, ma tutto sommato sembra che l’attenzione venga spostata altrove, nel rapporto padre-figlio.
Il problema è quando ci si approccia a questa pellicola avendo già in mente il romanzo da cui è tratto: Come Dio comanda è infatti derivato da un libro di Niccolò Ammaniti. Non è la prima volta che Salvatores cura l’adattamento di un romanzo di Ammaniti: era già accaduto con Io non ho paura, in quelle particolari manifestazioni di affinità elettiva tra un regista e un autore – uno dei casi più celebri è quello di James Ivory, che ha tratto Camera con vista, Maurice e Casa Howard rispettivamente da tre romanzi di E. M. Forster.
A differenza di Ivory e Forster, Salvatores e Ammaniti sono contemporanei, quindi legati da un’amicizia professionale diretta e una collaborazione attiva. Io non ho paura è un romanzo inferiore a Come Dio comanda, al contrario Io non ho paura film è superiore a Come Dio comanda film.
Il libro Come Dio comanda è un romanzo immenso, pulp, denso di linee narrative: una scelta stilistica peculiare è che ogni singolo personaggio che appare in scena, persino le comparse, hanno un loro più o meno grande arco narrativo, di tutti ci viene raccontato background e personalità. È un romanzo che ha un grosso buco nero nel mezzo – una notte di burrasca, raccontata con una dilatazione quasi dolorosa ma mai lenta; sincopata, tiene incollati alla pagina – e che tira fuori il meglio di Ammaniti, un equilibrismo nello stile che pochi autori possiedono e che definirei: un cinismo dotato di cuore. Riesce, in qualche modo, a essere crudo e cattivissimo ma anche sentimentale ed emozionante.
La storia, banalmente, è quella di un padre e un figlio che vivono ai margini. Rino, razzista, neonazista, stranamente attraente per le donne, rigido nei suoi principi (anche in banali principi più che condivisibili, come: non si stuprano le ragazzine) ma anche legato al figlio, che alleva da solo, come pochi padri sanno essere. Cristiano, il figlio (interpretato da Alvaro Caleca), in totale in adorazione del padre, per cui ucciderebbe e seppellirebbe cadaveri – cosa che fa. Un amico di famiglia soprannominato Quattro Formaggi, fuori di testa come un balcone dopo essere stato fulminato dai fili dell’alta tensione – ma non è che neanche prima fosse questa cima, a detta di Rino che lo conosce fin da ragazzo. Quattro Formaggi cova la passione per un enorme presepe allestito in casa e per un’attrice porno che lui conosce come Ramona, di cui guarda la cassetta a ripetizione.
Nel libro è poi presente un secondo amico di famiglia, Danilo Aprea, un uomo che dopo la tragica morte della figlioletta è diventato il fantasma di se stesso, e un’importante linea narrativa che parte proprio da lui, ovvero la decisione di svaligiare assieme ai due amici un bancomat, colpo programmato per quella fatale notte di bufera. Danilo, e insieme la linea narrativa, nel film non ci sono.
La sensazione, per qualcuno che ha letto il libro, è che il film sia in qualche modo mutilo, sia di queste parti – Danilo, il colpo al bancomat, le mini-storie degli altri personaggi -, sia soprattutto del pathos che la fatidica notte aveva su carta. La scena dello stupro, centrale nella storia, era difficilissima da girare con quei toni e quella spietatezza, e dobbiamo dirlo: Salvatores non c’è riuscito. È tutto più insipido, più appiattito, più accomodato.
Ripetiamolo: non è che i tagli narrativi siano indice, di per sé, di una cattiva qualità. Ma in questo caso c’è davvero la sensazione di un impoverimento. Come se il regista fosse interessato a un solo messaggio del libro e avesse intenzionalmente lasciato perdere tutti gli altri – che invece erano parecchio interessanti.
A voler trovare i punti di forza veri del film, non si può invece non citare il casting dei due protagonisti: sia Elio Germano (Quattro Formaggi), che è sempre bravo ed è ormai inutile ribadirlo – anche se si abusava un po’, in quel periodo, nell’affidargli ruoli sopra le righe – ma soprattutto Filippo Timi, che è il Rino Zena del libro, sputato, uscito dalle pagine. È valsa la pena di spendere i soldi della produzione anche solo per affidargli questo ruolo.
Insomma, qual è il mio consiglio? Vederlo o non vederlo?
Il mio consiglio è, se possibile, di leggere il libro prima di vederlo.
E sì, mi sento un po’ una snob di merda nel dirlo, ma: se potete, fatelo.