Anche se il finale ha deluso molti, Il trono di spade (o Game of Thrones, se preferite) ha sicuramente settato lo standard per quanto riguarda il fantasy televisivo. Che non è altro che un modo figo per dire che tutte le serie appartenenti a questo genere vengono automaticamente paragonate all’epopea targata HBO. Il più delle volte in negativo. È il caso di The Witcher, adattamento Netflix dell’omonima saga letteraria di Andrzej Sapkowski (salute!), che appunto ha lasciato alquanto indifferente la critica internazionale.
Da parte mia, non avendo mai visto una sola puntata di “GoT”, mi sono approcciato allo show senza pregiudizi. Addirittura non ho né letto i libri da cui è tratto né giocato ai videogame ispirati ad essi, quindi sono giunto all’appuntamento completamente vergine. Forse è per questo che, tutto sommato, a me The Witcher non è dispiaciuto.

Ambientata in un mondo fantastico stile Signore degli Anelli (ma molto più dark), la serie segue le gesta di Geralt di Rivia, un witcher – cioè uno “strigo”, un guerriero mutato e reso più forte dalla magia – che vaga di villaggio in villaggio uccidendo mostri a pagamento. Respinto da un’umanità che, in quanto diverso, lo teme e lo disprezza, e circondato da persone che spesso si rivelano peggiori delle creature a cui dà la caccia, Geralt vede la propria vita cambiare in seguito all’incontro con la potente strega Yennefer e la giovane principessa in fuga Ciri.

Nonostante lo show abbia suscitato un riscontro da parte mia nel complesso positivo, peccherei di disonestà se dicessi che The Witcher è un prodotto rivoluzionario e privo di difetti. Non è così. Innanzitutto soffre terribilmente i limiti di un budget ridotto (dopotutto Netflix non è HBO o Amazon). La scarsità di pecunia si fa sentire particolarmente sul fronte effetti speciali: durante la visione non è raro imbattersi in creature animate con una CGI rivedibile (quando va bene). Il che è paradossale (e imbarazzante) per un’opera in cui i mostri dovrebbero essere la portata principale.
Il peggio lo riserva il sesto episodio, con un fintissimo drago in computer grafica che sembra uscito da un telefilm degli anni ’90. Che poi, a pensarci bene, è abbastanza coerente con il tono generale della serie, molto vicino a quelle avventure ingenue e a basso costo che allietavano i nostri pomeriggi su Italia 1 quando eravamo ragazzini. In un certo senso, si può considerare The Witcher una versione millennial di Hercules o Xena. Sta a voi se vederlo come un aspetto positivo o negativo.

Sfortunatamente il ritmo è piuttosto discontinuo, con puntate che scorrono come se niente fosse e altre che paiono non finire mai. La colpa più grave della serie però è la tendenza a dare per scontato che chi la segue conosca già il mondo in cui si svolgono le vicende. Lo spettatore viene catapultato direttamente nella storia senza che gli siano fornite adeguate coordinate su cui muoversi, siano esse “storiche” o geografiche (bisogna attendere il penultimo episodio per vedere finalmente una mappa). E così si ritrova spaesato in mezzo a kikimore, Leggi della Sorpresa, maledizioni legate ad eclissi, guerre tra regni impronunciabili e via discorrendo.
Eppure, nonostante tutto, The Witcher funziona. Magari non avrà l’ampio respiro e il senso dell’epica delle opere di J.R.R. Tolkien, ma riesce comunque a proporre una storia sufficientemente intrigante e variegata (la trama orizzontale è integrata da sottotrame episodiche) da garantire l’interesse e il godimento del pubblico dall’inizio alla fine. Nel corso degli 8 episodi che compongono la prima stagione ci si diverte, ci si emoziona, ogni tanto (specie nelle puntate centrali) si ride e addirittura ci si commuove. Pure l’iniziale disorientamento viene meno man mano che i fili del racconto si sbrogliano, lasciando intravedere il quadro d’insieme.

Oltretutto ho trovato interessante la particolare struttura narrativa adottata, che divide l’azione su tre piani temporali alternati, dedicati rispettivamente a Yennefer, Geralt e Ciri. Più nel dettaglio, le vicende della strega hanno luogo prima di quelle del witcher, che a loro volta sono ambientate prima di quelle della principessa. Tutte però vengono restituite su schermo come se avvenissero contemporaneamente (giusto nel finale le varie timeline effettivamente coincidono).
Si tratta di una costruzione ardita, mutuata quasi certamente da Westworld (per non tirare in ballo Dunkirk) e intuibile solo a partire dal terzo episodio. E se a prima vista può sembrare gratuita, alla fine costituisce un ottimo modo per dare una degna caratterizzazione a tutti e tre i protagonisti. Pensiamo a Ciri: se consideriamo il tempo della storia, le sue avventure coprono un arco di poche settimane alla fine di un racconto lungo svariati decenni. In una narrazione lineare non riuscirebbe ad emergere, mentre nella serie può contare sullo stesso spazio riservato a Geralt e Yennefer.

E a proposito dei personaggi, non si può non lodare il cast. Henry Cavill mette a tacere tutti gli scettici e dà vita a un Geralt semplicemente perfetto. L’attore britannico, oltre ad avere il physique du rôle giusto per il ruolo, riesce a restituire con efficacia tutte le sfumature di un uomo all’apparenza cinico e scontroso, ma che nasconde dentro di sé più umanità della maggioranza della gente che incontra. Certo, possiamo scherzare tutto il giorno riguardo i grugniti e le imprecazioni del witcher (i vari “Mmh” e “Fuck!”, già diventati un meme su Internet), ma l’impegno dimostrato da Cavill è innegabile: oserei dire che recita meglio qui che quando interpreta Superman.

A lui si affianca Joey Batey nella parte del cantastorie Ranuncolo. Un’insopportabile spalla comica (come tutti i bardi del resto) a cui si deve perlomeno la creazione del tema musicale della serie: la canzone-tormentone “Toss a coin to your witcher” (“Dona un soldo al tuo witcher” in italiano). Un pezzo che, una volta ascoltato, non andrà più via dalla vostra testa. Provare per credere:
Sul fronte femminile, Anya Chalotra è una vera rivelazione, e non solo perché è “bella bella in modo assurdo”. La sua Yennefer è una figura complessa, affascinante e tragica (quasi più di Geralt), che l’attrice incarna con convinzione e passione. Da parte sua, la giovane Freya Allan conferisce l’adeguato mix di innocenza e determinazione a Ciri. Spiace solo che le potenzialità del personaggio siano ancora poco esplorate, ma immagino che ne sapremo di più nella seconda stagione.

Se tutto questo non vi basta, aggiungo infine che The Witcher presenta alcune delle scene d’azione più belle che abbia visto nel panorama seriale recente (almeno su Netflix). Lo spettacolare e violento massacro di Blaviken (con tanto di piano-sequenza) che chiude il primo episodio è una di queste. Ma degna di nota è anche la lotta contro la strige nel terzo. Una sequenza spaventosa e inquietante, che fa sconfinare la serie dalle parti dell’horror.
Sempre in bilico tra trovate interessanti e imperdonabili scivoloni, The Witcher probabilmente non accontenterà tutti. Di sicuro non chi si aspettava un nuovo Game of Thrones. Eppure rimane un prodotto gradevole nella sua imperfezione. Se smettiamo di vederlo per quello che poteva o doveva essere e iniziamo invece ad accettarlo per quello che è (un adventure fantasy di serie B), scopriremo che in fondo non è così male. Personalmente mi ci sono divertito e ora attendo con curiosità la prossima stagione. Sperando ovviamente che sia migliore.