Film

Concussion – Zona d’ombra

Il film riflette su una considerazione semplice, ma solo alla base, che ancora oggi non ha la risposta che merita: può, al giorno d’oggi, una scoperta scientifica medica fermare un’associazione che fattura miliardi, che intrattiene non solo in patria ma anche fuori, in nome della salute? La risposta dovrebbe essere sì, senza nessun dubbio.

Ma cosa succede quando questa associazione diventa la NFL  – una delle istituzioni sportive più potenti del mondo -, quando il problema diventa proprio il gioco del football e quando la cura sarebbe fermare il gioco?

Possiede anche un giorno alla settimana, e quel giorno prima era di Dio.

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La pellicola ci racconta la vera storia del dottor Bennet Omalu, neuropatologo nigeriano che scoprì la CTE e quindi la sua relazione con il football americano. Ma racconta anche qualcosa in più: il film ci mostra come, oggi più che mai, il mondo viva esclusivamente di business e lo fa passando sopra perfino alla salute dei propri dipendenti.

In fin dei conti il film non vuole tanto riflettere sulla relazione tra CTE e giocatori di football, almeno non in pieno, ma vuole porre un accento su un comportamento che risulta folle ed incredibile da parte di una potentissima e ricchissima associazione – in questo caso la NFL -, per tentare di non scalfire la sua immagine ed il proprio profitto.

E non a caso troviamo più volte metafore e citazioni sul mondo del tabacco e del fumo, proprio per rafforzare in chi guarda il pensiero che questo film possa valere per tutti quelle scoperte mediche che devono far fronte ad un interesse economico, che sia esso il fumo, uno stile alimentare – fast food -, un lavoro o uno sport.

Ed è proprio per questo che il film deve considerarsi riuscito.

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Ho giocato a football americano per anni, ho difeso questo sport da chi lo definisce troppo violento ed inutile e l’ho amato per quello che sa darti, e lo farò per sempre.

Questo sport è diverso da tutti gli altri per un solo motivo: quando la palla passa in mano al quarterback e l’azione inizia è come, passatemi il termine, trovarsi in guerra.

Hai quei 10-20 secondi in cui sai che dovrai mettercela tutta per difendere te stesso, i tuoi compagni o la palla; hai quei 10-20 secondi in cui o cadi o vai avanti, dove il singolo non conta quasi nulla; non puoi vincere una partita se la linea difensiva non protegge il quarterback, se lui stesso perde quel secondo per lanciare, se i ricevitori non corrono e si smarcano – e stiamo parlando di una sola azione d’attacco – e se non viene ben riprodotto uno dei 100-150 schemi in campo; è uno sport dove in una sola azione c’è bisogno di amalgamare la forza fisica, la forza mentale, la velocità, la capacità di lettura, la caparbietà e la potenza di 11 atleti che dipendono l’uno dall’altro.

Quì chi sbaglia non subisce un goal, non prende cartellini, non può dire non fa niente, è solo un canestro sbagliato, non è un punto regalato all’avversario, qui chi sbaglia paga prima per se stesso e poi fa pagare anche i suoi compagni, così come il punteggio.

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Ed è per questo che personalmente mi sono rispecchiato perfettamente nella figura del Dr. Julian Bailes

Sai, è veramente un gioco violento ed irrazionale, ma è anche poesia pura. Voglio dire, per me è vita. Ma quello che sto cercando di dirti è: che io non mi diverto a fare tutto questo. Tutti coloro che vedremo domani io li conosco personalmente e proveranno quella sensazione che hai quando qualcuno che ami e ammiri decide di fregarti. E non posso farci davvero nulla.

IN CONCLUSIONE:

Guardate questo film, non lasciatelo andare. Non è il film perfetto, ovvio, ma vi colpirà senza alcun dubbio sia che amiate o meno questo sport.

Non è un film sullo sport, non troverete frasi alla Ogni maledetta domenica, ma un racconto di una storia realmente accaduta e di grande importanza medica prima di tutto che sportiva.

Mi è piaciuto moltissimo il finale: durante tutta la pellicola Bennet si sorprende del perchè non si possa attuare la soluzione che ovvia al problema, ovvero lo smettere di giocare, ma nel discorso finale lo troviamo maturato e più consapevole di quello che ha affrontato e di cosa ha di fronte.

E’ una storia vera che ci riguarda tutti poichè parla di una malattia, di un problema che esiste, di cui noi possiamo solo decidere se accettarla e correrne il rischio o rimanere a guardarla da spettatori.

Salvatore Annarumma

Ho un anno in più di X-Files. Eredito dai miei zii la dipendenza al cinema. Crescendo cerco di capire come funziona il cinema: scrivo qualcosa, giro corti e sviluppo l'interesse per gli effetti visivi. Intraprendo un percorso di studi che mi porta a diventare un digital compositor. Adoro le serie TV, l'horror, i thriller, la fantascienza e il cinema sperimentale (chi non conosce Begotten dovrebbe far penitenza). Ah, non posso far a meno di guardare B-Movie: quando il mondo capirà realmente il loro valore sarà ormai troppo tardi.
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