
Diabolik di Mario Bava: Un re del terrore dal sapore pop

Primo novembre 1962. La pubblicazione del primo numero di Diabolik a opera di Angela e Luciana Giussani fu una scommessa vinta: per la prima volta un fumetto cupo e violento, il cui protagonista era geniale criminale che rubava e uccideva di avventura in avventura, riscuoteva un clamoroso successo in Italia, confermando il fascino inconscio e liberatorio per tutto ciò che è perverso. Naturalmente scandali e accuse di oltraggio al pudore non sono mancati, ma negli anni Diabolik ha consolidato la sua sua formula fino a diventare il personaggio del panorama fumettistico nostrano che assieme a pochi altri faticano a invecchiare (forse il Dylan Dog dell’era Recchioni si è riciclato male, ma queste sono elucubrazioni personali).
Ma ora basta parlare di fumetti, passiamo al cinema e facciamo un balzo nel tempo di circa mezzo secolo. Ormai quello del “cinefumetto”, soprattutto a fronte degli universi condivisi Marvel e DC, è un sottogenere sdoganato e sempre più ancorato a un’idea di serialità che se da un lato sta scatenando polemiche per il presunto “appiattimento” della concezione di film a tutto tondo in vista di un meccanismo di maggior respiro e complessità, dall’altro riscontra un favore di pubblico con pochi precedenti nella storia del cinema commerciale.

Le cose, però, non sono sempre andate così. A cavallo tra la seconda metà del Novecento e i primi anni Duemila, una cerchia di cineasti dallo stile decisamente peculiare si sono avventurati nel mondo dei personaggi dei fumetti, asservendoli alle loro idee filmiche senza farne perdere lo stile. E così eccoci a menzionare gli ovvi Batman di Nolan, Spider-Man di Raimi e Hellboy di Del Toro, tutti magnifici, vibranti e lungi dall’essere intrattenimento spiccio e senza spessore. Le origini di questo modus operandi autoriale con cui intendere la trasposizione di comics popolari vengono fatte risalire al Superman di Richard Donner e al Batman di Tim Burton, ma come quasi per ogni grande filone di successo che invade oggi le sale, in realtà bisogna arrivare al maestro del cinema di genere italiano, il grande Mario Bava, e al suo Diabolik. Suo proprio per tale ragione: il personaggio è chiaramente identificabile con quello delle Giussani, ma riletto secondo l’ottica e la sensibilità del regista.
Non starò a parlare nello specifico di Mario Bava e di tutte le grandi cose che ha fatto (per quello c’è un bel pezzo che spiega la sua arte meglio di quanto potrei fare io), ma Diabolik, per quanto non sia certo la punta di diamante della sua filmografia, mette in luce forse in modo più evidente il suo genio, la sua capacità di tirare fuori l’arte da budget ridicoli e situazioni produttive che definire precarie è un eufemismo. Sì, perché il lungometraggio di Diabolik è stato concepito in un grembo travagliato per poi venire deriso all’uscita dai massimi espertoni di cinema di casa nostra, salvo poi essere rivalutato “postumo” come un cult del cinefumetto italiano ma non solo (bisogna sempre aspettare che un regista tiri le cuoia per dargli finalmente il suo valore, vero cari critici snob e spocchiosi?).
Ritardi nelle riprese, continui cambi di casting e fondi della Paramount mai giunti nel Belpaese hanno caratterizzato una frustrante produzione lunga quasi tre anni (dal 1965 al 1968), e malgrado tutto ciò Bava è comunque riuscito a confezionare un film personalissimo che appare ancor oggi di grande freschezza e modernità, nonostante il sapore artigianale della messa in scena (o forse proprio per tale ragione!).
Per prima cosa, il nostro Marione ha riscritto completamente la sceneggiatura, attenuandone la cattiveria da film hard-boiled a favore di un’impostazione più piaciona e vicina a quella di un film di James Bond (anche per la sola presenza da cattivo di Adolfo Celi, già superbo villain in 007: Operazione Thunderball), sia per rendere il prodotto più fruibile che per non incorrere nelle stesse traversie legali della controparte cartacea. In secundis, la mancanza di denaro è stata una miniera d’oro (che belli questi squallidi giochi di parole) per l’estro creativo di Bava per il quale persino gente come Federico Fellini lo stimava: ricco di splendidi giochi di specchi e vetri dipinti impiegati per dare l’idea di scenografie sfarzose, Diabolik è un trionfo visivo di luci accesissime e colori pastello sgargianti che prendono il sopravvento su una trama volutamente approssimativa e piena di ironia per dipingere su celluloide dei meravigliosi dipinti degni della migliore pop-art.
John Philip Law, subentrato a un mostro sacro come Alain Delon, è perfetto nella parte di Diabolik, mentre a dare il volto alla nemesi del protagonista (l’ispettore Ginko) troviamo un sorprendentemente elegante Michel Piccoli. E naturalmente c’è Eva Kant, a cui offre corpo e mimica la spendida Marisa Mell, che l’anno successivo prenderà parte a un capolavoro come Una sull’altra di Lucio Fulci. È anche grazie a loro se Diabolik è un film così riuscito e memorabile, il cui successo commerciale ha aperto la strada ad una sfilza di film a sua imitazione (Kriminal di Lenzi) che ovviamente non hanno saputo replicarne la potenza.