
Dickens – L’uomo che inventò il Natale, guarda come ti scrivo un classico
Dopo essere sopravvissuta al Natale e ai suoi non trascurabili effetti collaterali (leggi: cibo a vagonate, parenti difficili e una bella scatola di antiacido per superare sia l’uno che gli altri), sono finalmente riuscita a portare le mie pesanti membra e quelle di mia madre a vedere Dickens – L’uomo che inventò il Natale, per la regia di Bharat Nalluri (Miss Pettigrew, Hustle – I signori della truffa).
Già, con mia madre. Da come scrivo di lei sembriamo delle Gilmore Girls di quarta categoria ma stavolta si è proprio sacrificata ad accompagnarmi, so che avrebbe preferito dedicarsi a mettere in ordine le rovine di quella che era la nostra casa dopo il Sacco natalizio. Visto che non mi piace andare al cinema da sola e gli amici erano tutti off limits, l’amore materno ha prevalso e si è lasciata trascinare. In questa recensione riporterò quindi anche le sue impressioni, mi sembra il minimo.
Premessa: per me l’unica riduzione cinematografica del romanzo di Charles Dickens che valga la pena è Canto di Natale di Topolino. Non mi è piaciuto A Christmas Carol e in generale non ho mai apprezzato l’eccessiva patina zuccherosa affibbiata a un libro che poi così stucchevole non è, non essendo Dickens un autore caramelloso, anzi, tutto il contrario.
Partivo quindi prevenuta, soprattutto perché insospettita dal prevedibile binomio storia natalizia – periodo natalizio, temendo una badilata di luoghi comuni sulle feste e un’agiografia sullo scrittore inglese, santificato solo per aver stilato un racconto sul “periodo più bello dell’anno” (e su questo assioma potremmo anche aprire un dibattito, ma non è questa la sede giusta).
Sinossi
Londra, 1843: reduce dal successo planetario di Oliver Twist e un esaltante grand tour in America, Charles Dickens/Dan Stevens (Downton Abbey, La bella e la bestia, Legion) è in piena crisi creativa ed economica.
Assediato dai creditori e da parenti parassiti, tra cui il padre, John/Jonathan Pryce, l’autore si trova di fronte al rifiuto degli editori di investire in un nuovo libro, una storia per Natale sul Natale, che ha come nucleo i racconti della domestica per i figli.
Deciso a portare a termine il progetto, diventa finanziatore di se stesso e vaga in cerca di ispirazione per la Londra industriale tante volte rievocata nei suoi romanzi, accompagnato dai fantasmi della sua fantasia, tra cui spicca Ebeneezer Scrooge/Christopher Plummer, in un viaggio creativo dai forti connotati autobiografici.
Uscita dal cinema non ho avuto il picco glicemico che temevo ma anzi, ero pervasa dalla piacevole sensazione di non aver mandato a ramengo né il tempo né la pecunia.
Ho un debole per i biopic che però troppo spesso assumono l’aspetto di un santino, impegnati come sono ad apporre aureole sulla testa del protagonista, fosse anche Jack lo Squartatore.
Dickens – L’uomo che inventò il Natale smentisce nei fatti la missione salvifica che il titolo rievoca; Charles Dickens non si propone affatto di rendere il mondo migliore con un libro sulla festa cristiana per eccellenza: il romanzo è prima di tutto un’iniziativa economica e di rilancio della sua carriera.
Il che non vuole assolutamente dire che egli perda di vista il tema portante della sua opera, l’ingiustizia sociale, anzi, forse troppo spesso, si calca troppo sulla sua proverbiale bontà verso i bambini poveri, quasi un Gesù tra i fanciulli, contrapposta a una certa indifferenza per i familiari.
Sia io che mia madre abbiamo gradito l’idea degli spiriti che aiutano a comporre il romanzo, portando Dickens a confrontarsi con il suo passato; Plummer è un ottimo Scrooge, gretto e pungente come il personaggio lo richiede, ma la miglior comprimaria rimane Londra, con le sue contraddizioni, tra sfarzo e case lavoro, tra carità cristiana e il cinismo più coriaceo.
Molto belle fotografia e scenografia, così come i dialoghi, brillanti e mai prolissi.
Dubbi condivisi sulla scelta dell’attore protagonista, anche se con motivazioni diverse. «Troppo belloccio», dice la mia genitrice. A me Stevens piace dai tempi di Downton Abbey, però non l’ho trovato del tutto azzeccato per il ruolo: troppo istrionico e ipercinetico. Non molto genuino, ecco.
Siamo giunte a conclusione che far uscire questo film durante le feste ha senso solo dal punto di vista del botteghino, perché in questo periodo ci sentiamo tutti più melensi: non è una storia sul Natale ma sulla gestazione di un capolavoro, sulle ragioni profonde dell’intrecciarsi di immaginazione e biografia.
Il Natale è sullo sfondo, non sotto le luci della ribalta, e il diabete ce lo scapoliamo anche stavolta.