
Django Unchained e l’Epopea – Schizzi di Tarantino
Django Unchained: il primo western di Tarantino, il primo atto d’amore per un genere e per i suoi eroi. Un altro capolavoro aggiunto alla sua bacheca.
Django e il mandolino
Le origini italiane di Tarantino sono lapalissiane quanto il suo buon gusto in fatto di film. Non vi so dire riguardo a pizza e spaghetti, ma il mandolino gli dev’essere proprio rimasto dentro se dopo averle cantate a tutti con un filotto tipo Le iene, Pulp Fiction, Jackie Brown, Kill Bill, Grindhouse – A prova di morte e Bastardi senza gloria, riesce a permettersi una maestà di film come Django Unchained.
Navigatore, santo, poeta: Quentin Tarantino è questo è molto di più, e nel suo settimo film (vincitore dell’Oscar alla miglior Sceneggiatura) ci racconta un tipo di cinema, prima ancora che una storia. Un cinema con il quale lui è cresciuto, un cinema legato a doppio filo con un’Italia ancora capace di far innamorare il mondo anche senza alzarsi la gonna e mostrare i suoi monumenti, un’Italia che esportava Sergio Leone, Corbucci (autore del primo Django), Gian Maria Volontè, Lucio Fulci, Mario Bava e attori come Franco Nero (che potete vedere qui sotto nella comparsata che fa nel film).
Il nervo scoperto
La storia è circa la più semplice del mondo: nel Texas schiavista pre-Guerra di Secessione il dottor King Schultz, un cacciatore di taglie/dentista tedesco (il premio Oscar Christoph Waltz), libera lo schiavo Django (Jamie Foxx) perché lo aiuti con una taglia particolarmente rischiosa. I due cominciano a collaborare e decidono di liberare la moglie dell’ex schiavo, ora proprietà del terribile negriero Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).
Come al solito l’abilità drammaturgica di Tarantino si dimostra pari, se non addirittura superiore, a quella registica. Lo zio Quentino riesce a intessere una trama articolata, composta da dialoghi mai così brillanti, attori che danno il massimo del massimo. Quello che veramente colpisce non è tanto la bravura di Tarantino – nel 2012 ormai non sorprende più nessuno – quanto piuttosto la vena politica che irrora il film con una componente di denuncia mai vista prima nel cinema del regista di Knoxville.
Django Unchained è una maestosa parabola sulla schiavitù e sul razzismo, sulla capacità di combattere e sopportare dolore per conquistarsi la propria libertà in un mondo che non è ancora (lo sarà mai?) pronto ad accettare la diversità.
Homo homini lupus est
La diversità è il tema centrale del film, una diversità che non è quella tra bianco e nero, tra nordista e sudista, non è la diversità di schieramento politico, ma la diversità tra persone. Prendiamo due neri: Django e Stephen, il malvagio capo negro di casa a Candyland, interpretato da un sempre magistrale Samuel L. Jackson; Django e Stephen sono i due lati opposti della medaglia.
“76 anni, Stephen! Quanti negri avrai visto perire? Settemila? Ottomila? Novemila? Novemilanovecentonovantanove? Ogni singola parola dalla bocca di Calvin Candie non era che una stronzata, ma su una cosa aveva ragione: io sono quel negro su diecimila!” Django
L’uno è il negro che ha dovuto subire la dannazione data dalla sua condizione di schiavo, l’altro è invece un servo privilegiato che ha passato la vita a guardare i suoi simili morire e soffrire atrocità innominabili, godendone e affondando il dito nella piaga.
Col personaggio di Stephen Tarantino rimescola le carte e complica la trama: i cattivi non sono solo i bianchi sudisti e razzisti, ma coloro i quali traggono vantaggio dal sistema, coloro i quali godono nell’affossare il prossimo.
A tanto caro sangue
Come al solito però Tarantino non è evangelico, non chiama a sé i bambini e non moltiplica pani e pesci: le sue sono parabole sottintese e imbevute di sangue, un sangue che esplode a raffica, com’è nella sua miglior tradizione, e che sfocia in una violenza che – però – stavolta non è solo gusto estetico. Per quanto le sparatorie siano sicuramente esagerate (ricalcando i “balletti di morte” di Leone) in Django Unchained non ridiamo della testa di Marvin che schizza sul lunotto posteriore, in Django la sofferenza c’è, il dolore ci stride nelle orecchie, il patimento di vedere due uomini che si ammazzano a mani nude per farne divertirne altri due è palpabilissimo, è quasi un attore in più in scena.
Un sangue che schizza improvviso, come dalla mano di un DiCaprio che si dimostra sempre più come il miglior attore della sua generazione e che ci regala un cattivo veramente malvagio, non un banale villain da quattro soldi. Il suo negriero incarna alla perfezione decenni di segregazione, teorie astruse su come dimostrare la (non) manifesta inferiorità della razza negra. Un concentrato mortale di quello che era l’America in quel periodo, un’America che si lorderà le mani del proprio sangue di lì a poco in una delle guerre civili più sanguinose che la Storia ricordi. Un’America a cui fa da antitesi un tedesco (un tedesco!) capace di andare al di là dell’idiozia della schiavitù, un uomo che si guadagna da vivere col sangue, ma che non riesce a sopportare la visione di un uomo sbranato dai cani.
Meglio l’europeo
In questo Tarantino è quanto di meno nazionalista si possa concepire: preferisce un tedesco, un nome comune macchiato per sempre dall’ignominia del nazismo, al barbaro americano.
Tarantino preferisce l’europeo, preferisce la culla della cultura occidentale. Preferisce anche il cinema del Vecchio Continente e ce lo dimostra in tutti i modi possibili (il nome della sua casa di produzione è “A band apart”, titolo di un film del francese Godard; gran parte dei suoi generi preferiti sono di matrice italiana; in Django vi è anche una forte presenza del mito dei Nibelunghi che non vi sto a svelare; eccetera eccetera).
Pindaro e Verga
L’epopea di Django Unchained cattura lo spettatore per tutte le due ore e quarantacinque che dura. Un’epopea che lascia un segno, come quelli sulla schiena di Django e sua moglie Broomhilda, marchiati per sempre da un’esperienza fondativa per un’America che – lo si capisce subito – è il vero bersaglio polemico del regista. Un’America ignorante e razzista che ancora oggi non si ostina a cambiare.
Calvin Candie: “Il tuo capo è uno un po’ debole di stomaco per uno sport cruento come la lotta”.
Django “Freeman”: “No. E’ che non è abituato a vedere un uomo sbranato dai cani”.
Calvin Candie: “Oh. Tu invece sì?”
Django “Freeman”: “Io sono solo più abituato agli americani, di lui”.
L’epopea western di Tarantino mescola tutto quanto, da Leone alle grandi pianure di John Ford, Clint Eastwood, John Wayne e Franco Nero, regalandoci uno spaccato personalissimo, fatto da balzi improvvisi, fantasioso, ma al contempo verista, di un momento storico cruciale che, per gli americani come Tarantino, è evidentemente ancora motivo di vergogna da esorcizzare con un capolavoro del cinema come Django Unchained.